LETTURE BIBLICHE: Matteo 5,38-48

Matteo 5, 38-48
Voi avete udito che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico:
non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche
l’altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello.
Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due. Dà a chi ti chiede, e a chi
desidera un prestito da te, non voltar le spalle.
Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”. Ma io vi dico:
amate i vostri nemici, [benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli
che vi odiano,] e pregate per quelli [che vi maltrattano e] che vi perseguitano, affinché
siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i
malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli
che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate
soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?
Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.

Nell’ambito del sermone sul monte, Gesù propone una nuova interpretazione della legge mosaica tramite il proprio insegnamento. Dopo aver trattato dell’omicidio, dell’adulterio, del divorzio, del giuramento, tratta l’amore verso il prossimo declinato nella rinuncia alla vendetta e nell’amore esteso perfino al nemico. “Occhio per occhio e dente per dente” è il dato dal quale Gesù parte. È la cosiddetta “legge del taglione”, comune ad altri codici giuridici, come quello di Hammurabi.
La legge del taglione costituiva un significativo limite alla vendetta privata che essendo esercitata sotto l’impeto delle pulsioni emotive anziché nell’obiettività del diritto rischiava di tradursi in un’offesa più grave del torto subito; la vendetta per sua natura tendeva a essere sproporzionata. Il principio che la legge del taglione sottintende è l’equivalenza della pena alla colpa. Anche nel diritto greco e romano vigeva la corrispondenza tra il delitto e la pena. Tuttavia anche una giusta applicazione del diritto può costituire in sé un’ingiustizia e ampliare in modo insensato il fronte della sofferenza: la legge applicata in modo cieco può generare ulteriore ingiustizia. l’applicazione della legge del taglione era ancora in vigore e destava ancora problemi al tempo di Gesù, dato che interviene per porvi un argine: “non contrastate il malvagio”. La prima interpretazione è di non opporsi al male subìto, non reagire alla malvagità che viene perpetrata nei nostri confronti; al contrario, opponendosi, reagendo, vendicandosi, si produrrebbe solo altro male.
L’altra interpretazione è di non resistere al malvagio, all’essere umano che agisce in modo perfido verso di noi. L’antitesi che Gesù pone è radicale. Non solo esclude l’esercizio della vendetta privata, non solo chiede di rinunciare alla legge del taglione pur essendo una via legale, ma chiede di rinunciare al ricorso a qualsiasi ritorsione, rinunciare a esercitare qualsiasi diritto. Gesù visse quest’esperienza quando si lasciò schiaffeggiare senza reagire, meglio restare nudi piuttosto che ingaggiare una battaglia legale o litigare con il prossimo, innescando una spirale di rancori e di ritorsioni.
Per un cristiano è opportuno evitare la contrapposizione e mostrarsi volenteroso, magnanime, percorrendo non solo il miglio richiesto ma addirittura due, ossia superare la distanza imposta dalla forza e colmare quella che esprime indulgenza verso l’altro, sopportazione dell’arroganza del prossimo. Per la credibilità evangelica è significativo rispondere a un sopruso con un beneficio: Essere generosi verso chi è nel bisogno.
Gesù va oltre qualsiasi distinzione, supera qualsiasi cavillo, e invita a un atteggiamento concreto, costruttivo. Farsi prossimo degli altri, farsi carico dei loro bisogni diventa un imperativo ancora più urgente quando costoro sono particolarmente bisognosi.
Gesù invita i suoi seguaci ad accettare un secondo schiaffo, a rinunciare al mantello oltre alla tunica, a percorrere il doppio del tragitto richiesto, a essere generosi verso chi chiede, per mostrare a chi si comporta in modo scorretto, arrogante, ostile l’insensatezza del suo agire, e per mostrare che il cristiano non adotta gli stessi metodi.
A Gesù sta a cuore la qualità del rapporto umano che inevitabilmente scade quando s’instaura un clima di rivalsa.
L’amore esteso ai nemici
Infine l’amore esteso ai nemici: Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”. Amare il prossimo è prescritto in Levitico: “Non ti vendicherai e non serberai rancore
contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso” (19:18). In pratica stabilire il confine di chi fosse il prossimo era materia alquanto contesa nelle varie scuole rabbiniche. Si ponevano paletti per limitare il campo e restringere il “dovere di amare”.
L’odio per il nemico non era specificamente dichiarato ma era cosa alquanto ovvia.
L’amore di cui qui si parla non è sentimento: E’ programma volto a rendere
positivo quello che nel male c’è di negativo. E’ il programma di Gesù per convertire il male e per insegnarci a farlo anche noi.
Umanamente si può passare dalla rabbia all’indifferenza, poi a comprendere le ragioni del nemico in modo da non “demonizzarlo; vedere nella sua inimicizia un segno della sua debolezza, della sua umanità. Non è necessario nutrire sentimenti affettuosi ma è necessario elaborare il dolore che il nostro nemico ci provoca e restituirgli l’umanità che il suo comportamento ostile ci indurrebbe a rinnegare.
L’invito a pregare addirittura per i nemici costituisce un novum. Non solo quindi l’elaborazione del dolore, bensì il riconoscere l’amore di Dio sparso anche per coloro che sono i nostri nemici.
“ Se amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?”.
I discepoli devono essere pronti ad accogliere lo “straordinario” che Gesù richiede. L’amore che lega i peccatori non ha nulla di nobile e di esemplare. È un amore fondato sull’attrazione naturale e sulla reciprocità affettiva. Accogliere coloro che hanno i nostri stessi interessi è un atteggiamento comune, ma Gesù indica l’Evangelo che va oltre l’ordinario: Nella pratica dell’amore si dimostra di essere “figli di Dio”. Dio accetta l’esistenza di ogni essere umano e la copre con il suo amore. Pertanto il sentimento distruttivo dell’odio non può albergare nell’animo e nella vita dei cristiani. L’essere “perfetti” non allude ad una perfezione morale ma al fedele che vive in totale dedizione a Dio. Un sinonimo è “integrità”. Tale integrità costituisce la “santità”, la consacrazione senza riserve al Signore. Vivere la dirompente parola evangelica è un invito a partecipare al progetto di Dio imitandone il comportamento.
Quest’appello evangelico però resta ampiamente inascoltato perché stride con il naturale egocentrismo umano che non tollera di essere sopraffatto. Risulta difficile mettere in pratica questa parola evangelica anche perché alla prepotenza e all’odio si tende a dare risposta immediata, istintiva.
L’evangelo invece richiede anche un certo esercizio, è uno stile di vita che va coltivato e che matura con il tempo: Un bisogno di lavorare su noi stessi affinché – con l’aiuto di Dio – impariamo a controllare le nostre emozioni e adottare uno stile di vita altruista.
Gesù ci mette davanti a dei valori talmente sublimi, a dei principi talmente puri, a delle esigenze talmente alte, da lasciarci meravigliati! È il suo modo per scuoterci dal torpore e farci comprendere la nostra inadeguatezza davanti a Dio! Così smaschera i nostri tentativi umani di trincerarci dietro le apparenze; ci conduce a rinunciare alla falsa giustizia; ci induce a guardare al di là di noi stessi e vivere la fede oltre l’etica del dovere, secondo l’etica dell’amore.
Amen

Past. Laura Testa

Altri sermoni alla pagina “cosa diciamo/sermoni”.

LETTURE BIBLICHE: Giudici 6,2-18. Rom. 12,17-21; 13, 1-10.

Epistola ai Romani12,17-21; 13, 1-10
17 Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini. 18 Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini. 19 Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio; poiché sta scritto: «A me la vendetta; io darò la retribuzione», dice il Signore. 20 Anzi, «se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo». 21 Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene.

1 Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio. 2 Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna; 3 infatti i magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive. Tu, non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, 4 perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male. 5 Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza.
6 È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio. 7 Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore; l’onore a chi l’onore. 8 Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. 9 Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». 10 L’amore non fa nessun male al prossimo; l’amore quindi è l’adempimento della legge.

Cari fratelli e care sorelle, la predicazione di oggi, su testi teologicamente densi, nasce dallo scambio di opinioni sul futuro dei giovani della nostra chiesa, che si affacciano al mondo universitario per formarsi e apprendere alcune professionalità. Comprendere la propria vocazione, è un processo che può durare una vita, ma certo il tempo degli esami di maturità è particolarmente denso di riflessioni esistenziali: dove mi formerò? quali studi voglio continuare quali abbandonare? ci sono possibilità di lavoro per quel che mi piace approfondire?
Tutte domande che pian piano chiariscono quello che è il lavoro desiderato dal il giovane studente, tutte domande che chiariscono quale sia la vocazione che lo Spirito rivolge alla studentessa.
Le opportunità e le difficoltà che si trovano nello scorrere della vita, poi daranno concretezza a questa vocazione, metteranno la giovane davanti a scelte necessarie. Ogni scelta sarà espressione dell’etica personale, sarà condizionata dalla visione del mondo dettata dalla propria fede.
Gesù nel discorso sulla vite e i tralci, parlando ai propri discepoli, dice :”voi non siete del mondo ma io vi ho scelti di mezzo al mondo”.
Questa è la condizione di ciascuno di noi che sente di essere chiamato dal Signore, la nostra vocazione, il nostro lavoro ci tiene in mezzo al mondo, dobbiamo quotidianamente fare i conti con le sue regole e con i suoi rapporti di forza, senza perdere la consapevolezza che l’amore di Dio, la nostra adozione tramite la morte e la resurrezione di Gesù ci rende figli di Dio.
Questa fiducia a cui ci appoggiamo, ci rende positivamente diversi dagli ambienti che frequentiamo. Il suo amore ci strappa ogni giorno alle logiche del mondo donandoci nuove possibilità. L’apostolo Paolo nei versetti precedenti al brano che abbiamo letto dice:” Io vi esorto fratelli …..non vi conformate a questo secolo ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente”.
In questa tensione, matura la nostra vocazione durante tutta la vita, in questa tensione prendiamo ogni decisione eticamente rilevante.
L’apostolo Paolo, nella parte della lettera ai Romani che abbiamo letto, dà una lunga serie di consigli e di esortazioni al piccolo gruppo che a Roma sta formando una comunità cristiana.
Vivete in pace, non fate le vostre vendette, restate sottoposti alle autorità , pagate i tributi, non abbiate altro debito con alcuno, se non di amarvi gli uni gli altri.
Nella enorme città piena di templi per tutte le divinità dell’impero, con enormi disparità sociali, vivere una vita cristiana, comprendere il significato di vocazione o giustificazione era veramente arduo!

Paolo aveva chiaro che i fratelli e le sorelle della chiesa che stava nascendo a Roma, per imparare a servire la chiesa, dovevano in primo luogo comprendere la loro diversità dal mondo romano, ma senza staccarsi dalla realtà nella quale il Signore li aveva chiamati.
“Non essere vinto dal male , ma vinci il male con il bene”, scrive l’apostolo. La tensione in cui matura la nostra vocazione al lavoro è qui ridotta ai termini essenziali; vediamo che le logiche vincenti nel lavoro e nella economia sono espressione dell’interesse personale e della avidità sociale , ma possiamo vincere queste forze con l’amore fraterno, la agape del Signore.
Ma Paolo non si dimentica dove questa agape doveva attuarsi, a Roma, sede dell’imperatore, e allora raccomanda di essere sottomessi alle autorità. A Roma la autorità si vedeva dovunque, con i suoi edifici e con le sue istituzioni. A Roma i magistrati e le truppe erano un incontro quotidiano che non si poteva ignorare.
A Roma era molto facile che un gesto non avveduto fosse scambiato per resistenza, e Paolo ricorda che i magistrati non sono di spavento alle opere buone , ma alle cattive.
Sappiate fare i conti con i magistrati, sappiate fare i conti con il potere che a Roma incontrate ad ogni angolo!
Con linguaggio contemporaneo Paolo direbbe: “La vostra diaconia deve sapersi tingere dei rapporti politici esistenti, deve saper diventare anche una diaconia politica”.
Anche oggi se ragioniamo sulle nostre azioni come chiesa o come singoli, non possiamo prescindere dal conoscere ed esaminare il contesto legale e politico nel quale le svolgiamo. Ognuno di noi nello svolgimento del proprio lavoro e nelle relazioni sociali che abbiamo, attua una specifica diaconia . L’aiuto diretto a chi è in difficoltà o lo sforzo politico perché il potere non discrimini chi ha meno possibilità. L’aiuto economico che risolve il problema quotidiano del singolo o lo sforzo di riflessione per cambiare le condizioni che hanno portato quel singolo, e tanti altri, a non mettere insieme il pranzo con la cena.
Ogni scelta etica si inserisce in un quadro di leggi esistenti che vanno osservate, ma che potrebbero essere attuate diversamente o che potrebbero cambiare.

L’apostolo Paolo per aiutare i credenti di Roma fa una affermazione impegnativa: il magistrato è al servizio di Dio per il vostro bene, è al servizio di Dio per la condanna di chi fa il male.
La traduzione letterale di questa seconda frase sarebbe “essa (la autorità) è al servizio di Dio per manifestare la Sua collera verso il malfattore”.
Non voglio approfondire in questa riflessione il rapporto dei credenti con alcune professioni legali o il rapporto della chiesa con lo stato. Paolo è concreto: “non vendicatevi per i torti subiti, pagate le tasse, vincete il male con il bene”.
Paolo esorta i credenti che leggono la lettera a trovare lo spazio per svolgere ogni diaconia dentro al quadro legale e politico esistente, consapevoli che si tratta sempre di una lotta del bene con il male.
Nella nostra chiesa ci sono dei giovani, essi sono alla ricerca della propria vocazione, una vocazione che riguarda tutta la loro vita, non solo le attività nella chiesa. Questa vocazione cresce dentro ad una tensione tra il mondo e la speranza del regno di Dio, tra il male ed il bene. Questa vocazione proviene dalla nostra adozione come figli di Dio mediante la croce.
Questo il messaggio della Parola letta oggi!
Ora chiediamoci come risuona questo messaggio nella nostra mente di abitanti di Verona in Italia, nel 2016.
I consigli di Paolo ad abitare il mondo esistente, a fare i conti con l’autorità, sono validi anche oggi? E’ possibile non essere vinti dal male? Se facessimo il magistrato o il poliziotto potremmo vincere il male con il bene?
E noi, condividiamo le parole di Paolo sulla autorità? Come consideriamo chi ha il potere di applicare le leggi o di amministrare i soldi pubblici? Come un nemico da abbattere? Come una persona da ingraziarsi? Come una cornice corrotta da cui tenerci lontano per non sporcarci? Tentiamo in ogni modo di ignorarli e deleghiamo ad altri l’intervento in questo campo?
Non ho le risposte a tutte queste domande, posso solo portare un esempio di come la nostra chiesa in Italia tenta di vincere il male con il bene, rimanendo sottoposta alle autorità superiori, conoscendo, e a volte forzando, il quadro legislativo e politico esistente.
Mediterranean Hope, i corridoi umanitari, l’aiuto ai rifugiati e ai migranti.
Sembrava non ci fosse spazio per aiutare chi fugge dalla guerra e dalla fame, se non raccoglierli naufraghi in mare. Questa era la situazione politica ed economica, questo il mondo in mezzo al quale Dio ha scelto la sua chiesa. Ma studiando le leggi, consolidando alleanze con parte del mondo cattolico si è trovata una strada possibile. Vi era una clausola dei patti europei che nessuno aveva attuata, vi era la disponibilità a spendersi nella lotta dentro la burocrazia politica italiana, vi erano i soldi dell’Otto per Mille valdese anche essi figli di una legge discussa .
Dentro a quel quadro, alcune centinaia di persone sono giunte sicure in Italia. Il significato delle azioni di Mediterranean Hope è quello di forzare il quadro legale e politico per dare indicazioni di speranza, una speranza concretamente attuabile in tutti i paesi europei, una speranza attuata in Italia.
Un esempio di servizio dal forte valore politico, che ancora continua dentro alle tensioni che agitano tutte le nazioni di Europa, un esempio possibile grazie allo sforzo collettivo di tanti credenti anche molto giovani. A livello individuale ciascuno, giovane o maturo che sia, è in ricerca della propria vocazione che non può essere limitata dal rifiuto del mondo esistente. Certo sarà difficile, il mondo si opporrà alle nostre speranze, ma la vocazione del Signore ci chiama ad uscire dal chiuso dei luoghi di culto, mantenendo nella memoria le ultime parole del capitolo 13 della lettera ai Romani:” Indossiamo le armi della luce, camminiamo onestamente come di giorno. “
Che il giorno, il giorno del Signore si levi davanti a noi con l’aiuto dello Spirito Santo. Amen

Ruggero Mica

 

Altre predicazioni nella pagina cosa diciamo/sermoni.

LETTURE BIBLICHE: I Timoteo 1, 12-17; Luca 15,1-10

12 Io ringrazio colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù, nostro Signore, per avermi stimato degno della sua fiducia, ponendo al suo servizio me, 13 che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento; ma misericordia mi è stata usata, perché agivo per ignoranza nella mia incredulità; 14 e la grazia del Signore nostro è sovrabbondata con la fede e con l’amore che è in Cristo Gesù. 15 Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata: che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo. 16 Ma per questo mi è stata fatta misericordia, affinché Gesù Cristo dimostrasse in me, per primo, tutta la sua pazienza, e io servissi di esempio a quanti in seguito avrebbero creduto in lui per avere vita eterna. 17 Al Re eterno, immortale, invisibile, all’unico Dio, siano onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
I Timoteo 1,12-17

1 Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. 2 Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
3 Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? 5 E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; 6 e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta”. 7 Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.
8 «Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? 9 Quando l’ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta”. 10 Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede».
Luca 15,1-10

La lettura oggi suggerita dal nostro Lezionario è una delle più famose del Nuovo Testamento: si tratta delle parabole della pecora smarrita e della dramma perduta. Nel vecchio innario del 1922, quello che conteneva anche canti per i bambini, c’era un inno, dolcissimo, che oggi abbiamo cantato tutti insieme “Io sono un agnellino”, la storia di un bambino “salvato dal Signor”. Un canto che suscita tenerezza negli adulti perché è la storia di un bambino che si è perduto, ma che viene cercato, ritrovato e quindi portato in salvo. L’inno dice già tutto: di fronte al Signore siamo come bambini, bisognosi di aiuto e protezione, come i bambini rischiamo sempre di perderci, ma non dobbiamo temere, perché il Signore non si dimentica di noi e viene a cercarci e non ha pace finché non è riuscito a portarci in salvo.
Ma la tenerezza di questo inno non deve distoglierci dal desiderio di approfondire il messaggio che ci giunge da queste due parabole.
Cominciamo dall’inizio: le due parabole (in realtà 3) sono introdotte da un preambolo che illumina e chiarisce l’intero passo: “Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. “Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».”
E dunque vi siete mai chiesti da che parte state voi? Da che parte siamo e stiamo noi? Noi chi siamo? Siamo i peccatori che si avvicinano a Gesù o siamo i farisei che mormorano? Naturalmente siamo peccatori e abbiamo bisogno di essere accolti, ma forse questa parabola può farci riflettere anche su qualcosa d’altro. Noi tutti siamo padri, madri, zii e zie che cercano di difendere i propri bambini, siamo anche adulti che cercano di difendere le fasce deboli della società, uomini e donne credenti che vogliono difendere la loro chiesa e la loro fede. Ma allora, se ci riflettiamo con lealtà, possiamo certamente comprendere scribi e farisei. Uomini che cercavano di difendere il popolo di Dio, cioè il gregge che ritenevano fosse loro affidato, da quelle che potremmo definire delle “cattive compagnie”. I farisei e gli scribi non erano mossi da intenzioni malvagie, volevano impedire che la fede loro e dei loro padri, la fede di Abramo, Isacco e Giacobbe, fosse contaminata e trascinata lontano dai suoi fondamenti: voi mamme e papà sareste contente e contenti se i vostri figli frequentassero persone che praticano il male? Persone che abusano del proprio ruolo per guadagnare sulla pelle dei poveri, come i pubblicani, o persone che rubano e truffano il prossimo, ladri o anche solo maleducati, sbandati, fumatori, bevitori e la lista potrebbe essere lunga? Quale madre e padre non si spaventerebbe di fronte ad amici che non siano del tutto a posto?
Ancora una volta Gesù ci mette in discussione, interroga la nostra interiorità più profonda scardinando il nostro quieto modo di pensare: noi spesso ci comportiamo come i farisei e gli scribi, benché secoli e secoli di lettura antisemitica del N.T. ci aabiano insegnato a disprezzarli, quindi stiamo attenti quando ne prendiamo le distanze, anche se naturalmente sappiamo bene di essere anche, contemporaneamente, le pecore che il Signore cerca e accoglie.
Procedendo nella lettura, dobbiamo sottolineare un altro aspetto degno di attenzione: la prima parabola racconta che il pastore abbandona le 99 pecore nel deserto e va a cercare la centesima. Nel deserto? Sì, nel deserto! Non dice che il pastore porta le pecore nell’ovile e poi va a cercare la perduta… dice che le lascia nel deserto. Vi rileggo la frase: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? ». La domanda è posta in modo tale, che ci spinge a rispondere di getto: Sì, certo! Anche noi lo faremmo, ovvio! Ma pensiamoci bene: se avessimo un gregge di 100 pecore, siamo certi che metteremmo a repentaglio la sicurezza di 99 per salvarne una, anzi, per cercare di salvarne una? Ecco di nuovo scardinati i nostri luoghi comuni, il nostro consueto pensare umano, umanissimo: ho perso un centesimo di quello che avevo? Pazienza! L’importante è salvaguardare il restante 99! Sembra assolutamente sensato dirlo. E qui vi chiedo di fare un altro sforzo di immaginazione: per un momento non identificatevi con la pecora perduta, ma con le 99. Che fareste voi? Il buon pastore è anche pastore vostro! Perché se ne va? Perché vi abbandona nel pericolo? E’ dunque un pastore non buono? La terza parabola di questo capitolo del vangelo di Luca è quella del figliol prodigo: ricordate la rabbia del figlio che resta a casa? Ma come, sono sempre stato qui, ho sempre obbedito agli ordini di mio padre e lui cosa fa? Festeggia il ritorno di mio fratello, di colui che non si è sacrificato per la famiglia, che se ne è andato in giro a fare quello che gli pareva e piaceva, mentre io sgobbavo e sudavo!
Anche noi, probabilmente, lasciati da soli nel deserto forse ci sentiremmo traditi, abbandonati. Quante volte, in effetti, ci siamo sentiti esattamente così: soli e abbandonati, pieni di rabbia nei confronti di coloro che ci sembrano più amati, meglio protetti e maggiormente difesi, in famiglia, sul lavoro e forse anche nella fede. La generosità di Dio ci va benissimo quando si tratta di perdonare noi, quando siamo noi ad essere accolti, ma ci da un po’ fastidio quando ad essere accolti sono coloro che noi giudichiamo più peccatori di noi.
Ed infine vorrei riflettere con voi su un ultimo punto: siamo sicuri di sentirci, sul serio, come la pecora smarrita? Di sentire con tutto il nostro essere la paura di perdere la strada, cioè di perdere la fede, o di smarrirci nel labirinto della nostra attuale società, così piena di altri, nuovi e accattivanti idoli? Siamo sempre pronti a sentirci peccatori e bisognosi qui in chiesa, la domenica durante la confessione di peccato, ma poi, nella vita concreta, non viviamo forse nella consolante convinzione che, in fondo, mica rubiamo, mica uccidiamo, non evadiamo neppure le tasse! E poi, tutto sommato nella quotidianità abbiamo tante cose da fare, tanto a cui pensare, non possiamo mica vivere come fossimo dei frati in un convento!
Io credo invece che quello che la parabola vuole insegnarci è che tutti e tutte facciamo parte del gregge del Signore, sia che ne siamo consapevoli, sia che non lo siamo. Inoltre vuole affermare con forza che noi, ognuno e ognuna di noi, siamo veramente e profondamente importanti per Dio: al punto da affermare il paradosso che quando si tratta della nostra salvezza il Signore non vede null’altro, non pensa a niente altro se non a salvarci. Nulla è più importante per quel pastore, che salvare colei o colui che si era perduto, perduto nell’indifferenza, perduto nell’ipocrisia del ben pensare, perduto nell’angoscia di una vita durissima perché non c’è lavoro, perché la casa è precaria, perché qualche persona cara è morta lasciando un vuoto incolmabile, perché viviamo una vita che sentiamo come inutile. Ognuno e ognuna di noi, quando si sente solo, abbandonato, incerto, disilluso, schiacciato da colpe che sente imperdonabili forse non riesce a sentire il Signore. Ma quello che oggi vi annuncio è non solo che non siamo abbandonati, ma che se ci perdiamo, se non troviamo più la nostra strada non dobbiamo temere perché dietro e accanto a noi c’è il Signore, non solo ma non appena Egli riuscirà ad aprire il nostro cuore e le nostre orecchie farà festa grande, gioirà: Dunque, fratelli e sorelle, rallegriamoci facendo nostra questa bellissima e incredibile notizia: il nostro ravvedimento non solo cambierà la nostra vita, ma riempirà di gioia il Signore e tutti gli angeli di Dio. Amen!

Erica Sfredda

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