Dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è libertà. (2 Cor. 3,17)

Il versetto del mese di ottobre è vertiginoso. Pur risuonando alle orecchie del fedele – forse in particolare del cristiano evangelico- come estremamente familiare richiede, proprio per la sua profondità, una attenta riflessione.

Ho citato la fede protestante poiché il tema della libertà fa vibrare corde intime della sensibilità evangelica. L’opera più conosciuta di Lutero è indubbiamente “La libertà del cristiano” che il Riformatore pubblicò nel 1520, appena tre anni dopo avere appeso le sue 95 tesi sul portone della chiesa del castello di Wittenberg. Da lì ad un anno, in occasione della dieta di Worms, Lutero avrebbe difeso la libertà della coscienza “prigioniera della parola di Dio”. Ecco che abbiamo già una contraddizione: ma come, non suona stridente accostare i termini libertà e prigionia? Lutero non teme l’apparente incongruenza: il cristiano è libero perché è contemporaneamente signore e servo. Se fosse solamente l’uno oppure l’altro non sarebbe libero. E’ l’unione di due estremi che lo libera. La fede è libertà: lo sguardo è rivolto a Dio, non ai mille signori del mondo da cui si è affrancati. La fede è servitù ma è essere servi per amore. Per amore non si è mai prigionieri in realtà.

Lo vediamo anche nell’Antico Testamento. Al termine del Libro dell’Esodo il popolo ebraico liberato riceve le istruzioni per la realizzazione delle istituzioni cultuali. Il termine ebraico usato per descrivere il servizio al Signore è diverso da quello indicato per definire la schiavitù egiziana. La parola “abodà” intende non il lavoro forzato bensì il servizio spontaneo. Il testo biblico invita più volte quanti hanno “cuore generoso” (Es. 35,5b) a servire il Signore.
L’amore, il cuore, la gratuità, il moto spontaneo che origina in un Amore più grande sono la “prigionia” del cristiano … o la libertà più grande? Il cristiano è quindi servo (?) per l’amore che lo fa accostare al prossimo.

Perché Paolo parla di libertà?
Nella seconda lettera ai Corinzi non mancano le note polemiche. L’Apostolo difende il suo apostolato nei confronti dei suoi avversari e rivendica in Cristo il suo unico riferimento. E’ una lettera in cui troviamo un’ampia gamma di emozioni: tenerezza e collera, amore e rimprovero, tutto per conservare l’unità della chiesa di Corinto e la propria attività. In particolare la colletta a favore dei poveri della chiesa di Gerusalemme: segno di reciproco riconoscimento in una cristianità primitiva che è già diversificata. Cerca la riconciliazione Paolo e lo fa identificando la minaccia per le comunità rappresentata dai cosiddetti “superapostoli”: missionari itineranti che si fanno retribuire e raccomandare, che alterano il messaggio di libertà di Cristo richiamandosi alla lettera delle Legge. Dove risiede questa libertà? Non certo nel legalismo, nel rispetto letterale della Legge di Mosè. Nei versetti che precedono quello citato Paolo descrive un velo “steso sul cuore” che sarà tolto: nella conversione avremo l’accesso alla gloria di Dio, gloria che è libertà, Spirito che è libertà. La libertà come elemento costitutivo di Dio. Liberi, a viso scoperto, senza veli siamo già -secondo Paolo- trasformati. Nuove creature, di “Gloria in gloria”. Ecco la vertigine di cui scrivevo all’inizio, siamo nel cuore dell’essenza divina: in Lui, al servizio della giustizia, affrancati dagli idoli, con lo sguardo limpido , consapevoli, immagine fortissima e indegna (ecco un’altro contrasto) dell’Eterno. Forza … quale? Il Vangelo Paolino è la Parola della croce, quello della debolezza e della pazzia, dell’apostolato forte nella debolezza.

A quale apostolato quindi siamo chiamati? Forti e deboli, signori e servi, in un gioco di apparenti contraddizioni che ci interpella: quante sono le privazioni della libertà che opprimono il prossimo oggi? Quante sono le privazioni della libertà che conculcano il nostro spirito, oggi? Privi di retorica, rispondere … fa male. D’altronde è in gioco la libertà! Qual’è la nostra “abodà”?

Io ti amo di un amore eterno; perciò ti prolungo la mia bontà. (Geremia 31,3)

Geremia è il modello del profeta sofferente: appassionato, vivace, dolente. Vive pienamente la forza dell’annuncio sorretto dalla Parola. Denuncia, invita alla conversione; in perenne contrasto con gli ascoltatori.

“Sedotto” dal Signore, inizia la sua attività profetica in momenti drammatici: la minaccia babilonese alla fine del VII secolo a.C. è prossima, di lì a pochi anni Gerusalemme sarà conquistata, il popolo di Israele deportato. Geremia avverte la contraddizione di dovere annunciare ad un popolo di cui si sente parte il tradimento di questi nei confronti di Dio. È il rifiuto dell’amore divino da parte di Israele, che si concretizza nell’idolatria, nella menzogna, nell’incirconcisione del cuore: il peccato ha raggiunto tutti ed è -in sostanza – ribellione radicale nei confronti di Dio. Geremia vuole convincere il popolo ad abbandonare il peccato e tornare  al Signore.

L’annuncio profetico non è però solo di accusa e giudizio, è anche annuncio di salvezza: Israele si avvierà infine alla propria dimora di pace, tornerà nella sua terra. Un popolo  minuto, frammentato, debole,  in balia delle superpotenze dell’epoca non è dimenticato da Dio. La salvezza che lo attende è il frutto dell’azione gratuita del Signore, un Dio fedele, che ha nel cuore innanzitutto gli ultimi, i sofferenti.

Ecco che la salvezza annunciata da Geremia si riallaccia a quel filo rosso che si dipana lungo la Scrittura intera: l’economia del povero, degli ultimi, degli emarginati, dei disprezzati, dei reietti, dei secondogeniti. Dall’Antico al Nuovo Testamento. Lo vediamo nel Vangelo di  Luca: il tema degli ultimi e della Misericordia di Dio è fortissimo. La tenerezza di Dio per i bambini, le donne, gli schiavi, i deboli, i peccatori incapaci di salvarsi da soli, i rifiutati, emerge costantemente negli scritti lucani. Ecco che Maria concepirà un figlio per un intervento gratuito di Dio, analogamente alle donne della storia di Israele: Sara, Rebecca, Rachele, Anna, donne sterili, quindi ultime.  Nel Salmo 118 lo troviamo: è il Dio della “Pietra scartata”. Non possiamo avere dubbi: Il Signore sarà sempre dalla parte degli oppressi. Non è un Dio impassibile.  Il suo amore è viscerale, non viene meno. Con le parole di  Geremia lo ricorda nel versetto citato, in Cristo lo rivelerà fino in fondo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perchè chiunque crede in Lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Abbiate del sale in voi stessi e state in pace gli uni con gli altri. (Marco 9,50)

Poche parole, scarne, ma come sempre nel Vangelo di Marco, la sobrietà e la brevità colgono l’essenza.

Poco dopo il culmine del Vangelo di Marco, in cui al capitolo 8 Pietro svela il segreto messianico, rivelando chi sia Gesù: “Tu sei il Cristo”, si apre una sezione in cui Gesù annunzia due volte la sua passione e resurrezione ed in cui rivela qualcosa della sua natura con l’episodio della trasfigurazione.  Abbassamento e innalzamento vanno di pari passo. Gesù non accetta che il titolo di Messia sia confuso con l’immagine di un re vittorioso. Lo dice  chiaramente: dovrà soffrire, essere rifiutato e infine, risorgere. La trasfigurazione inoltre lo rivela come Figlio di Dio.

Ecco che di fronte al mistero più grande di un Dio che in Cristo ci mostra la sua umanità, che nella debolezza è forte, intuiamo qualcosa di Lui. La conseguente domanda è naturale: noi cosa dobbiamo fare?  Il versetto citato risponde infatti alla preoccupazione degli apostoli di avere i primi posti e rispondendo dice: “abbiate sale e siate in pace”. Cristo chiede spirito di sacrificio di fronte al mondo e pace tra i suoi discepoli, forza, testimonianza -il sale non può essere insipido- e amore fraterno.

AS

Il Signore rispose a Mosè: “Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il nome del Signore davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà.” (Esodo  33,19)

Israele ha appena rotto l’alleanza adorando il vitello d’oro. Mosè, “l’amico di Dio”, colui che parla con il Signore faccia faccia, intercede presso Dio per il suo popolo ed il Signore, subitamente…cede. “Il mio volto camminerà con voi e vi darò riposo”, dice il Signore. A Mosè non è sufficiente però: “Mostrami la tua gloria”, chiede ed ecco che Dio replica con il versetto citato: “Io farò passare davanti a te…” ed aggiunge: “…quando passerà la mia gloria, ti coprirò con la mano…” .

Emerge la figura di un Dio dalla dolcezza infinita, che immediatamente perdona il peccato di Israele, Mosè  non deve neanche sprecare troppo fiato e Dio, il Dio fedele, rinnova subito le proprie promesse. Un Dio che ha cura, che di fronte alla richiesta di vedere la sua gloria, cioè la sua reltà intima,  acconsente, prendendosi cura di Mosè, coprendolo per proteggerlo da una visione trascendente. Il Signore che sa essere vicino, che va incontro all’uomo, pronto a perdonare, che si fa conoscere ma che non è conoscibile fino in fondo.  Un Dio nascosto quindi? In parte perchè non possiamo possederlo ma visibile negli effetti della Sua azione, tenerezza, misericordia , che non sono celati.

AS