Qualcuno l’ha definita “teologia pop”, cercando di identificare un genere che accosta senza timori i temi teologici ad elementi della cultura popolare: dal fantasy alla fantascienza e , perchè no, al fumetto d’autore. L’accostamento a prima vista ardito è quello capace -scardinando approcci tradizionali- di spingere alla riflessione. Chi ha detto che la profondità del pensiero non possa essere favorita dalla rottura di schemi consolidati?   In questo solco si muove il testo “Il vangelo secondo Mafalda” di Marco Dal Corso, che lunedì 17 dicembre 2018 alle ore 20,30 presso il tempio valdese di Verona di via Duomo angolo via Pigna, sarà presentato dall’autore in dialogo con la Pastora Laura Testa della chiesa valdese di Verona.

L’ingresso è libero.

Al link la locandina dell’evento:

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Un video per trasmettere il senso della nostra fede cristiana a tutti, in modo nuovo e aperto. Con frasi e gesti molto semplici, amici e membri delle chiese valdesi e metodiste spiegano il perché della loro fede e ci raccontano cosa significa per loro il Padre Nostro.

Ideazione e sceneggiatura di Roberto Davide Papini. Riprese e montaggio a cura di Daniele Vola.

[chiesavaldese.org]

Per la serie “Una chiesa che risponde” pubblicata sul canale youtube della chiesa evangelica valdese, riportiamo un breve messaggio del pastore Marcello Salvaggio che intende rispondere al quesito del titolo.

Il grande ruolo delle donne è in ogni occasione stato riconosciuto da Gesù con grande chiarezza, non dimentichiamo che sono state le donne le prime a ricevere l’annuncio della resurrezione, in una società in cui la testimonianza delle donne non aveva alcun valore in tribunale. In una chiesa in cui si prende molto sul serio il sacerdozio universale dei credenti, come riporta la prima lettera di Pietro: “Ma voi siete una discendenza eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo acquistato perché proclamiate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (2,9), siamo convinti che il pastorato delle donne costituisca una grande ricchezza e fonte di pluralità.

Vediamo …

In questi giorni in cui i venti di guerra soffiano violentemente sulla Siria, il messaggio di pace di Gesù e delle sue chiese interpella ancora e sempre l’umanità intera. La Siria: terra martoriata da anni in cui in nome della strategie planetarie, dell’appropriazione e della gestione delle risorse naturali della terra, si perpetrano  incessanti massacri ai danni della popolazione. Nel breve video pubblicato sul canale youtube della chiesa evangelica valdese, il pastore Jens Hansen risponde sinteticamente alla domanda: “Che posizione ha la chiesa valdese sulla guerra e sull’obbligo di un servizio militare quando questa non vi è?” , ricordando che attualmente vi sono ben 67 stati nel mondo in stato di guerra e che -come ebbe a scrivere il teologo Juergen Moltmann- siamo chiamati a trasformare l’energia criminale in energia dell’amore.

Ascoltiamo …

Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua discendenza (Deu 30:19 NRV)

Mosè ha appena raccontato la storia del popolo israelita, e in tutto il libro del Deuteronomio si ripete, ammonisce e mette in guardia sul bisogno di ricordare il Dio che li ha fatti uscire dalla terra della schiavitù. Si ribadisce continuamente che gli israeliti devono amare il Signore loro Dio con tutto il loro cuore, mente e forza e amare i loro vicini come se stessi.
Mosè avverte gli israeliti che quando entreranno nella “terra promessa” e lasceranno il deserto, saranno tentati di dimenticare il nutrimento spirituale e materiale che Dio è stato per loro nella loro povertà e nel loro peregrinare. Egli ripete la loro storia narrando di come Dio ha donato loro tutto, dall’acqua che scaturisce dalla roccia o la manna dal cielo, e li avverte che quando entrano nella Terra Promessa potrebbero cominciare a consumare troppo e, se non stanno attenti, creeranno idoli . Disse loro che, finché l’Amore di Dio e del prossimo saranno la guida costante del loro agire la continuità della fede varrà per loro e anche per la loro discendenza.
Deuteronomio 30,19 è praticamente l’ultima frase prima della morte di Mosè e l’intero libro è il suo “discorso di addio”.

Domande di riflessione:
Riflettendo sulla storia: quando abbiamo amato qualcosa più dei nostri vicini?
Cosa era?
Oggi amiamo qualcosa di diverso dal Dio e dal nostro prossimo?
Quali sono le conseguenze?
Riflettendo sull’oggi: quali sono i nostri idoli?
Che danni hanno prodotto quegli idoli sulla terra e sulla sua gente?
Per amare Dio e amare il prossimo come noi stessi: che tipo di lavoro spirituale possiamo (dobbiamo, vogliamo) fare?
In che modo la nostra Chiesa, gli amici e i familiari ti sono stati di aiuto o stimolo nell’ amare Dio e il prossimo (creazione di Dio e all’ambiente)?
La nostra Chiesa può diventare uno strumento migliore verso la crescita della cura per il prossimo, l’amore Dio e il creato? Come?

Past. Laura Testa

Quando oggi da un podio si vedono politici agitare un Vangelo,  nella mente di chi guarda a Cristo come Signore e Salvatore non possono non risuonare dei campanelli d’allarme. Ci si potrebbe chiedere perché in campagna elettorale spuntino i Vangeli branditi come fossero una bandiera di partito, o ci si erga a paladini dell'”Europa cristiana” mentre di difesa di Cristo si parla poco, o per niente. Sì perché per parlare di difesa di Cristo si dovrebbe  trattare di difesa degli ultimi, dei diseredati, degli immigrati, dei reietti di questa terra, dell’ “orfano e della vedova” del XXI secolo.

Sono stati molti i momenti della storia in cui la chiesa è stata chiamata ad ergersi contro qualsiasi strumentalizzazione.  In ambito protestante, nel 1934, l’anno successivo all’avvento al potere del nazismo, fu pubblicata la Dichiarazione Teologica di Barmen in cui teologi e pastori che si riconoscevano nella Chiesa Confessante (Bekennende Kirche)  si opposero alla Chiesa Evangelica Tedesca di stampo nazista. Le sei tesi della dichiarazione di Barmen intendevano esprimere una netta opposizione verso chi riteneva che Dio agisse promuovendo e sostenendo il nazismo, avversando la Chiesa Evangelica Tedesca che era stata creata dai nazisti ed operava secondo il Fuehrerprinzip (principio del duce) con a capo il “vescovo del Reich” Ludwig Mueller.

Tra le tesi di Barmen -che ebbero tra i loro estensori Dietrich Bonhoeffer e come redattore finale Karl Barth–  leggiamo che “Gesù Cristo è l’unica parola di Dio che dobbiamo ascoltare”  e che “respingiamo la falsa dottrina secondo cui la chiesa sarebbe autorizzata a lasciar determinare la configurazione del suo messaggio … dal variare delle convinzioni ideologiche e politiche di volta in volta dominanti”, inoltre è definito che “La Scrittura ci dice che lo Stato … ha il compito … di provvedere al diritto e alla pace”.

Si esprimeva in sostanza “una chiesa che esce dalla neutralità complice o semplicemente pavida e si pone decisamente nella società come spazio di responsabilità critica anche in campo economico e sociale” (P. Ricca in Filoramo Menozzi: “Storia del cristianesimo, l’età contemporanea”).

Non possiamo non rilevare oggi l’attualità della dichiarazione di Barmen che -nata come documento all’interno delle chiese- risuona ancora oggi come monito verso chi intende usare la fede cristiana come oggetto di strumentalizzazione politica  e non certo per ciò che essa é : un annuncio liberante, un annuncio di salvezza, la rivelazione dell’amore di Dio in Cristo: “Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi” (Mt, 25,37-37).

Alessandro Serena

Oggi si è svolto il funerale di un piccolo, dolce bambino, figlio di una sorella di chiesa. Tutta la comunità si è stretta attorno a lei, ma anche la comunità è ferita, mutilata.

Un fratello di chiesa, che non ha potuto partecipare alle esequie, ci ha inviato una piccola riflessione in inglese, che riportiamo. Sotto, trovate una traduzione libera in italiano.

Amidst Crisis Of Life, January 27.

The righteous cry, and the LORD heareth, and delivereth them out of all their troubles. Psalms 34:17.

In the crisis of his life, when making that terrible journey from his childhood home in Canaan to the bondage which awaited him in Egypt, looking for the last time on the hills that hid the tents of his kindred, Joseph remembered his father’s God. He remembered the lessons of his childhood, and his soul thrilled with the resolve to prove himself true—ever to act as became a subject of the King of heaven.

In the bitter life of a stranger and a slave, amidst the sights and sounds of vice and the allurements of heathen worship, a worship surrounded with all the attractions of wealth and culture and the pomp of royalty, Joseph was steadfast. He had learned the lesson of obedience to duty. Faithfulness in every station, from the most lowly to the most exalted, trained every power for highest service.

(Joseph Koomson)

Salmo 34:17
I giusti gridano e il SIGNORE li ascolta; li libera da tutte le loro disgrazie.

Nel momento più doloroso della sua vita, mentre vedeva allontanarsi per sempre le tende nelle quali era cresciuto, nel terribile viaggio verso la schiavitù che lo aspettava in Egitto, Giuseppe si ricordava del Dio di suo padre. Ricordava gli insegnamenti che aveva ricevuto nella sua infanzia, ed assumeva nel suo cuore la ferma determinazione di rimanervi fedele, qualunque fosse stato il suo destino.
Nella vita amara di straniero e schiavo, in una terra ricca di seduzioni, di ricchezza, circondato dal lusso della corte e dal culto opulento di altre fedi, Giuseppe si mantenne risoluto e fedele alla sua promessa, accettando la volontà del suo Signore, al cui servizio mise a disposizione tutto se stesso.

Jesus Camp (sottotitolo: America is being born again) è un documentario realizzato nel 2006 da Rachel Grady e Heidi Ewing che, in uno stile immediato e diretto, senza commento alcuno, permette alle immagini, al loro montaggio ed alle parole dei protagonisti di fornire allo spettatore un’idea di quell’evangelismo nordamericano che anima, religiosamente e politicamente una parte importante degli USA. Sappiamo che sotto l’ampia definizione di protestantesimo si comprendono denominazioni anche molto diverse tra loro, nella teologia, nell’esegesi e nella prassi, contribuendo a caratterizzare quella diversità che fino dalle sue origini è intrinseca alla libertà della Riforma e che responsabilizza in maniera particolare il credente protestante. Responsabilità che viene decisamente meno nella dottrina evidenziata nel documentario.

Il documentario

Il controverso documentario racconta vari momenti di un campo estivo evangelicale per ragazzi, segue tre bambini al “Kids on Fire summer camp”  nella piccolo centro di Devil’s Lake nel Nord Dakota. Il film causò reazioni forti negli Stati Uniti, in particolare in quel mid-west dove il fondamentalismo ha forti radici. Colpiscono le reazioni emotive dei bambini, i toni militareschi, i temi trattati: dal coinvolgimento dei bambini alla lotta contro l’aborto, alla benedizione di una sagoma di George Bush, dai bimbi che incitati gridano “Giudici giusti!”,  alle loro lacrime in quelli che paiono, più che momenti di preghiera, delle fonti di  shock emotivo. La responsabile del campo evidenzia la necessità che i minori siano l’esercito di Dio per fare tornare l’America ai “valori cristiani” conservatori, affermando tra le altre cose che Harry Potter, in quanto mago, nell’epoca dell’Antico Testamento sarebbe stato messo a morte (sic).

Le immagini si commentano da sole e consentono a noi di comprendere meglio uno degli elementi che ha probabilmente contribuito a portare al potere l’attuale amministrazione americana ma anche di  riflettere sul fondamentalismo  come fenomeno storico.

Il fondamentalismo

L’interessante testo “Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diventare fanatici. ” di P. Berger, A. Zijderveld (edizioni Il Mulino, 2011) ci aiuta a contestualizzare il fondamentalismo di oggi, osservandone la genesi. Gli autori riportano infatti come una serie di opuscoli, diffusi all’inizio del XX secolo negli Stati Uniti, a difesa del protestantesimo conservatore , “i fondamenti”, abbia originato il termine. Il fondamentalismo è descritto come  fenomeno reattivo che a differenza della tradizione sorge quand’essa è messa in discussione, ovvero minacciata; di conseguenza chi costituisce tale minaccia deve essere convertito, segregato, reso innocuo.  Il modello reconquista è quello in cui i fondamentalisti tentano di conquistare una società , alternativo a quello settario in cui si cerca di consolidare le proprie certezze in una comunità ristretta. Il primo modello si declina nel totalitarismo , necessario alla sua sussistenza, che a differenza dell’autoritarismo penetra ogni ambito della vita civile. Il modello settario, se da un lato ha una forza intrinseca legata a barriere mentali non facili da superare per gli adepti che volessero liberarsene, vede nella sua istituzionalizzazione e trasformazione in chiesa (sia che si tratti di valori religiosi o secolari) la sua possibile evoluzione e quindi la sua fine. Due le condizioni imposte dai gruppi fondamentalisti: nessuna comunicazione con gli esterni, nessun dubbio. Gli strumenti dispiegati per la tutela del fondamentalismo sono tristemente noti: l’isolamento della setta, la reinterpretazione della vita passata, gli istruttori, i funzionari, l’imposizione di comportamenti condizionanti, l’annichilazione. La pericolosità del fondamentalismo è percepibile secondo gli autori non solo in questi strumenti ma nel fatto che rappresenti una minaccia alla libertà, in particolare dove la libertà è stata istituzionalizzata come nelle democrazie liberali.

Quale sia il modello applicato nel caso del camp evangelicale lo si potrà desumere facilmente visionando il documentario sottoriportato, in inglese sottotitolato in italiano.

Alessandro Serena

«Prepararsi un pasto caldo prima di affrontare la lunga traversata. Questo provavano a fare Amina e le altre donne collegando con una canna per l’acqua la bombola del gas a un fornello improvvisato. Il ritorno di fiamma non ha lasciato loro scampo… Erano in ventitré. Una, appena diciannovenne, non era riuscita a sopravvivere. La più piccola aveva solo due anni…».
Partiamo da qui, da quanto scrive nel suo libro “Lacrime di sale” Pietro Bartolo, medico a Lampedusa che dal 1991 assiste chi sbarca.
Da qui, perché prima, molto prima di qualsiasi considerazione, da questo punto di vista, di chi è ultimo, dobbiamo guardare, se vogliamo mantenere la nostra umanità.


Hannah Arendt scrisse nel 1963 “La Banalità del male”, che raccontava il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann, definito dalla Arendt stessa un “elemento  chiave” del meccanismo di deportazione degli ebrei allo scopo di perseguire la  “soluzione finale”: lo sterminio  del popolo ebraico per mano nazista. Quanto la colpiva era la normalità di Eichmann, che non appariva come un mostro sanguinario ma come una persona “terribilmente e spaventosamente normale”. In una sua lettera la Arendt scriveva: 
«Penso che il male non è mai radicale, può essere solo estremo e che possiede né profondità né dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero precisamente perché si diffonde come un fungo sulla superficie.»

Un fungo sulla superficie…

Il male si insinua, lentamente si diffonde, mascherato da normalità, mascherato da buon senso. Come non applicarlo a quanto stiamo vivendo oggi quando si parla di immigrazione?

Raramente il tema è affrontato con la dovuta serietà: populismo e demagogia si alimentano grazie ad un vortice di paure. Afferrare allo stomaco il lettore e l’elettore, bypassando il cervello, questo pare l’esercizio più diffuso oggi quando si parla di immigrazione. Provocare reazioni basate su sensazioni, percezioni, “buon senso”. Il “buon senso” di chi non è informato ma è scandalizzato “dall’immigrato col cellulare”, dal rifugiato che “vive in hotel”, dalle persone che “non fuggono da guerre ma vogliono solo il loro benessere”, “siamo invasi, basta guardarsi intorno.”

Informarsi è necessario per chi vuole capire, è irrinunciabile per un cristiano che non può assistere indifferente allo spettacolo di un’umanità devastata, misera e disperata che chiede aiuto.

I numeri servono a capire. Le migrazioni esistono dalla notte dei tempi. Le spinte sono sempre quelle: si fugge dalla povertà, dalla guerra, dalla carestia, dalla morte.

In tre anni e mezzo sono stati accertati 14.785 morti o dispersi in mare tra le persone che tentavano di raggiungere l’Europa (fonte UNHCR, alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati, riportata dall’osservatorio del Corriere della sera). Il numero di persone non censite morte in terra africana cercando di raggiungere le coste, non lo conosciamo, il numero di persone respinte nei lager in Libia e altrove non lo conosciamo. In questo momento, secondo l’ONU, in Somalia, Yemen, Sud Sudan e Nigeria la vita di 20 milioni di persone è minacciata dalla carestia. Dobbiamo prendere atto che si tratta di una tragedia di dimensioni colossali, globale.

Secondo le statistiche di Eurostat l’Italia è quinta (con 280.100 persone) nella classifica europea dell’immigrazione che nel 2015 vede la Germania prima con 1.543.800 immigrati. Sempre secondo l’UHNCR in Europa siamo quindicesimi su 18 nella quota di rifugiati ogni 1000 abitanti (2,4). Sia l’immigrazione europea che extraeuropea è indirizzata verso economie più forti della nostra, nonostante l’Italia per ragioni geografiche si presti maggiormente all’ingresso di immigrati.
In Italia nel 2017 (secondo i dati del Viminale) sono sbarcate 93.000 persone: il primo gruppo rappresentato, con il 17% è quello dei nigeriani (oltre alla carestia ricordiamo le stragi e i sequestri di Boko Haram); il secondo non è definito da una nazionalità ma da un’età: sono i minori non accompagnati: oltre 12.000. Senza genitori.

Sono cose che SI DEVONO SAPERE, prima di azzardare qualsiasi commento; è fondamentale per la nostra coscienza critica e per salvare la nostra appartenenza al genere umano.

Consideriamo inoltre che, spesso, abbiamo la memoria corta. Gli italiani immigrati negli USA erano chiamati “dagos”, (chiaramente perché sempre armati di coltello ), ritenuti maleodoranti, criminali, mafiosi. I tribunali del sud segregazionista avevano i loro problemi per definire il grado di “negritudine” dei nostri connazionali con tratti mediterranei, perché le condanne erano differenziate per bianchi e neri.

Il nostro è ancora un paese con la valigia in mano. Secondo il centro studi Idos citato dal Sole 24 ore, nel 2016 sono 285.000 gli italiani emigrati (in maggioranza diplomati e laureati): l’Italia è più un paese di emigrazione che di immigrazione. Pensiamo che il titolo di studio faccia una differenza per i razzisti? Per l’intolleranza, lo straniero è sempre un problema. Peggio ancora se l’immigrato è qualificato : ”Ci ruba i posti migliori…”. La discriminazione ha sempre la stessa squallida faccia, ad ogni latitudine ed in ogni tempo.

Torniamo allo sguardo degli esclusi, ricordando che per Lutero, Dio ha lo sguardo rivolto verso il basso. Riprendiamo quindi dal libro di Pietro Bartolo :

«Prepararsi un pasto caldo prima di affrontare la lunga traversata. Questo provavano a fare Amina e le altre donne collegando con una canna per l’acqua la bombola del gas a un fornello improvvisato. Il ritorno di fiamma non ha lasciato loro scampo. Ustioni sul 90% del corpo. Una scena terrificante ma gli scafisti in Libia non hanno avuto alcuna pietà. Le hanno caricate a forza su un gommone e in quelle condizioni loro hanno viaggiato e sono finite alla deriva in preda a dolori lancinanti, finché a salvarle non è arrivata la guardia di finanza. I soccorritori non sapevano nemmeno come toccarle, come prenderle a bordo delle motovedette senza farle soffrire ancor di più. Eppure, da loro, non un lamento, un urlo, un pianto. Nemmeno quando in queste condizioni i militari le hanno portate in banchina. Non potevo crederci. Davanti ai miei occhi avevo una scena terribile. Non sapevo da che parte cominciare. Era l’ennesima sfida. Perché ad ogni sbarco non sai cosa ti troverai ad affrontare… Erano in ventitré. Una, appena diciannovenne, non era riuscita a sopravvivere. La più piccola aveva solo due anni ed era completamente bruciata. Ho cercato di procurare loro il minor dolore possibile. La pelle veniva via a brandelli lasciando scoperta la carne viva. Dovevamo trasferirle subito… una corsa contro il tempo… »

Di fronte ai diseredati, ai rinchiusi nei lager, ad Auschwitz o in Africa, a chi è su un gommone, agli ultimi ricordiamo che il volto di Cristo è in mezzo a loro:

«Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare? O assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto? O nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto ammalato o in prigione e siamo venuti a trovarti?” E il re risponderà loro: “In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me». (Mt. 25, 35-40)

Alessandro Serena

Dire «Solo Cristo» non significa giudicare o disprezzare la fede, la spiritualità, le credenze altrui. Significa solo dire che, per noi, Cristo è la via attraverso la quale Dio si rivela, e, di conseguenza, quella che intendiamo seguire. Una via, un percorso, non un concetto: lungo una via si cammina, ci si guarda avanti e indietro, ci si ferma o ci si accampa, si incontrano altri viandanti. Come ci ricorda il libro degli Atti, i primi cristiani erano chiamati «quelli della Via».

Cercare Dio solo in Gesù Cristo significa cercarlo nel confronto con un essere umano concreto, nato, vissuto e operante in un luogo e un’epoca storica precisa, morto di una morte atroce e vergognosa. In un mondo pieno più che mai di aspiranti maestri, sacerdoti e signori, per noi Gesù Cristo è l’unico Maestro, Sacerdote e Signore.
L’unico maestro: colui che per noi ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68), parole e azioni che ci mettono in questione, ci sconvolgono, ci fanno guardare con altri occhi le cose, le persone, i fatti della nostra vita.
L’unico sacerdote: il solo intermediario tra noi e Dio, che ha proclamato e attuato la fine del regime dei sacrifici e della distinzione tra sacro e profano. In Cristo non abbiamo più bisogno di luoghi santi, di professionisti del divino, di offerte sull’altare per placare l’ira di Dio o ingraziarcene i favori.
L’unico Signore: il condannato a morte, sconfitto e abbandonato da tutti, la cui autorità non si basa sul denaro, sulle armi, sulla parola seduttrice, il cui modo di agire mette in discussione tutti gli altri poteri. Il Crocifisso che, tre giorni dopo, è risorto. Con la sua risurrezione (caparra e speranza per ognuno di noi), Dio stesso ha annunciato che la morte e i poteri di questo mondo non hanno l’ultima parola.
Riconoscere il Solo Cristo significa relativizzare tutte le filosofie, le ideologie, le religioni, le potenze che aspirano alla nostra adesione e alla nostra obbedienza. Anche dopo la pretesa «fine delle ideologie» restiamo tentati di cercare la nostra sicurezza nell’abbandono acritico a qualche assoluto. Non ci sono solo i fondamentalismi religiosi: pensiamo ai nazionalismi, al razzismo, alla fiducia nella competizione, nella finanza o nel progresso scientifico.
Solo Cristo non è un integralismo contrapposto ad altri integralismi; è un criterio di libertà, soprattutto verso le idee, le cause, i modi di pensare che ci sono più vicini e congeniali. Il loro ruolo e valore è quello di strumenti per capire e cambiare la realtà, non di fini, di ideali da realizzare a ogni costo. Perché «tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo» (cfr. 1 Cor. 3, 22-23).

Avere Cristo come maestro non significa osservare il mondo dall’alto, con la sicumera di chi possiede la verità. Al contrario, significa imparare quello che Bonhoeffer chiama «lo sguardo dal basso»: guardare gli eventi dalla prospettiva «degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi». In Gesù Cristo ci viene rivelato non un Dio aggressivo e distruttore che rivaleggia con gli altri poteri per la conquista del mondo, ma un Dio sofferente e solidale con tutti e tutte noi, con tutti i dimenticati e gli sconosciuti, con tutta la creazione mai come oggi minacciata.
Il Solus Christus è un aiuto a orientarsi nell’incertezza di una società «liquida», priva di punti di riferimento, dove regnano il rischio, la precarietà, l’insicurezza, la disperazione. Nel Cristo crocifisso e risorto impariamo a vivere la nostra debolezza, senza lasciarci sballottare da «ogni vento di dottrina» (cfr. Ef 4, 14), né trincerarci in identità forti e assolute. Gesù ci libera dalla frenesia dell’attivismo (anche quello ecclesiastico) e dall’ossessione di salvare il mondo: al suo seguito c’è da lavorare, ma anche da pregare, da contemplare, da «stare in silenzio davanti al Signore e aspettarlo» (cfr. Sal 37, 7).
Gesù di Nazareth non è rimasto nella tomba, ma neanche cammina visibilmente su questa terra.
Crediamo che egli è presente tra noi, dovunque due o tre sono riuniti nel suo nome. Gesù ci ha lasciato la sua Parola da meditare, e il suo Spirito che ci aiuta a farla nostra. Ci ha lasciato il prossimo in cui cercare il suo volto, e sorelle e fratelli con cui ogni giorno costituire la chiesa che testimonia di lui.