Narrano i cieli la gloria di Dio, gli spazi annunziano l’opera delle sue mani
(Salmo 19)

«È privo di fondamento (…) questo legare l’uomo a se stesso, anziché fargli prendere coscienza del fatto che un corretto orientamento dell’esistenza scaturisce da una volontà di ricercare, accrescere, esprimere la gloria del Signore». Questa la risposta, cioè «Soli Deo gloria», solo a Dio la gloria, che Giovanni Calvino manda da Ginevra nel settembre del 1539 al cardinale di Carpentras Jacopo Sadoleto. Quest’ultimo, nella sua lettera del marzo dello stesso anno, aveva invitato pubblicamente i ginevrini, con i quali Calvino viveva in quel momento tutta la novità della Riforma, a ritornare sulla «retta via» della Chiesa cattolica. A rendere quindi «gloria», piuttosto, alla sua Chiesa, alla disciplina, alla dottrina, ai dogmi.
Senza i dogmi e i sacramenti della tradizione cattolica, aveva scritto il cardinale, sarebbe preclusa la vita eterna ai credenti ribelli. Una minaccia terribilissima che, come Calvino sottolinea, tende a tenere imprigionate le anime a cui non sia permessa una propria originale «lettura» della Parola delle Scritture, e quindi un dialogo libero, personale, confidente e responsabile, con il Dio che la Riforma vuole recuperare in tutta la sua gloria «esclusiva».

Soli Deo gloria diventa uno dei cinque «Sola» della Riforma, fondamentale e fondante degli altri quattro. Perché per rendere gloria a Dio, che vuol dire amarlo per la sua bontà e la sua creazione di cui facciamo parte, bisogna ascoltare la propria vocazione, cioè la Fede, nutrirla con la Scrittura, gioire della Grazia, riferirsi costantemente all’esempio di Cristo. Ed esprimere e declinare sempre nuovi contenuti e comportamenti in modo appunto che Soli Deo gloria possa continuare e ribadire il proprio significato nelle varie e mutevoli condizioni storiche.
Cambiano infatti nel corso della storia gli idoli a cui opporsi, ma Soli Deo gloria indica di epoca in epoca la loro inconsistenza, anche quando la massa umana li sacralizza. Oggi questi idoli sono il profitto e la finanza, lo sfruttamento di una parte del mondo su un’altra, la tecnologia fine a se stessa, quella scienza che si autorizza e si compiace con arroganza dei propri risultati. Abilità e conoscenze, e il potere che ne deriva, illudono gli uomini di essere centrali e autosufficienti. È l’eterna e diabolica superbia che si incarna, a seconda dei tempi e dei luoghi, in diversi personaggi e diverse ideologie autocelebrative. Desiderio di superare il limite posto all’essere umano, che ha le proprie radici nella preistoria, come ci insegna il mito di Adamo ed Eva. Tentata prima Eva, forse perché il matriarcato ha illuso le donne di un proprio potere nel generare la vita, poi Adamo quando, sempre nella notte dei tempi, il «maschile» ha ribaltato la situazione di potere sottomettendo il «femminile».

Tutto l’Antico testamento racconta come Dio, nella sua assoluta libertà, ha scelto, tra popolazioni adoranti dee madri, animali, feticci e faraoni, il popolo ebraico perché era quello con cui Egli si poteva più facilmente relazionare. Il patto della circoncisione forse segna proprio questo rendere gloria all’unico vero potere generativo che appartiene a Dio e non all’uomo, siglato attraverso un segno visibile nella carne.

Dio assegna al popolo ebraico in quei tempi il compito di tramandare il proprio messaggio d’amore. Che si esprime nella consegna a questo sparuto e spaventato gruppo di esuli della prima incontrovertibile testimonianza, appunto, della paterna attenzione verso l’umanità, che si dibatte dentro le proprie debolezze e fragilità e confusioni: i dieci Comandamenti, che fanno una lapidaria chiarezza su ciò che è bene e ciò che è male, e che iniziano proprio con «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Un Dio che, andando a ritroso nel racconto, aveva già insegnato attraverso l’episodio di Abramo, disposto a uccidere il proprio figlio, che i sacrifici umani, che al tempo erano una pratica comune, non erano necessari alla sua gloria, non erano graditi, non erano permessi.

Se la parola «gloria» ci sembra impegnativa, se può condurre a immaginare un Dio Padre lontano nell’«alto dei cieli», possiamo correggere la sensazione tornando, nella Trinità, alla figura e all’esempio illuminante di Gesù, che, intervenendo nella storia, ha allargato il messaggio divino a tutti. E ricordandoci che lo Spirito di Dio è con noi quotidianamente, agisce in noi direi maternamente come suggerisce la sua etimologia ebraica al femminile: ruah.
Non a caso Johann Sebastian Bach, cantore della Riforma, siglava le sue composizioni musicali all’insegna del Soli Deo Gloria. Intuiamo infatti che certi risultati umani, eccezionali come quelli delle bachiane Passione secondo Giovanni e Passione  secondo Matteo, ma anche assolutamente più quotidiani quali sono quelli che sperimentiamo noi credenti quando siamo chiamati a fare piccole e grandi scelte, non possono attuarsi se non con l’aiuto di Dio. Che agisce dentro di noi e che ci illumina la via.
Tutto quello che riusciamo a realizzare non è per noi. È per la sua gloria

 

Giovedì 21 settembre 2017, ore 17:30
DEFORMATA REFORMARE
la riforma prima della Riforma
relatore
GIULIO RAMA Liceo Marie Curie

Giovedì 12 ottobre 2017, ore 17:30
FEDE GRAZIA SCRITTURA
il cuore della Riforma Luterana
relatore
URS MICHALKE Pastore della Chiesa Luterana di Verona e Gardone

Giovedì 28 settembre 2017, ore 17:30
POTERE E IMMAGINAZIONE
l’incontro (e lo scontro) tra Carlo V e Lutero
relatore
CARLO SANDRELLI Liceo Marie Curie

Giovedì 19 ottobre 2017, ore 17:30
PIETRO VALDO E LA COMUNITÀ VALDESE
una Chiesa della Riforma in Italia
relatore
LAURA TESTA Pastora della Chiesa Valdese di Verona

 


Sede degli incontri

PALAZZO MUNICIPALE DI GARDA
sala consiliare
Lungolago Regina Adelaide, 15

INGRESSO LIBERO

 

Iniziativa promossa da
ISTITUTO ISTRUZIONE SUPERIORE STATALE MARIE CURIE
Garda Bussolengo
UNIVERSITÀ DEL TEMPO LIBERO DI GARDA


 

 

«Dio ha così amato il mondo che ha dato il suo unico figlio perché tutti coloro che credono in lui non muoiano, ma abbiano vita eterna. Dio non ha mandato suo figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma per salvarlo attraverso di lui» (Giovanni 3, 16-17)
Parlare di fede, forse, può essere ambiguo e poco comprensibile, poiché spesso questo termine si utilizza per indicare manifestazioni di fanatismo religioso oppure per esprimere varie forme di superstizione; inoltre la nostra è una società fortemente secolarizzata e, dunque, la «fede in Dio» interessa poco, semmai appartiene alla dimensione privata dell’individuo. Senza dubbio non si può ridurre il Dio dei Cristiani a una spiegazione razionale e i dogmi della chiesa, a partire dalla Trinità, appaiono talora complicati e oscuri per chi è alieno dal linguaggio filosofico e teologico. Al contrario, l’uomo Gesù continua ad affascinare perché offre qualche certezza storica, almeno in alcuni dati fondamentali e, soprattutto, per il messaggio trasmessoci, che rimane attuale.

Tuttavia l’etica dell’ebreo Gesù, per quanto rivoluzionaria ed anticonformista, non rappresenta in toto il suo messaggio di salvezza, perché avere fede non significa esclusivamente sforzarsi di seguire i suoi insegnamenti morali (per quanto ciò sia già un ottimo proposito, valido per tutti, atei e credenti); piuttosto – ancora prima di agire – significa, illuminati dalla Grazia divina, affidarsi per intero alla «buona notizia» ed essere sicuri che quell’oscuro figlio di un falegname, probabilmente falegname anche lui nei primi trent’anni della sua vita, è morto in croce per la liberazione degli esseri umani dal male, per iniziare il nuovo regno, per riconciliare noi – umanità corrotta e incapace di essere davvero giusta e onesta, incapace di amare il prossimo senza riserve o autocompiacimenti – con l’Eterno. La fede diventa allora il fondamento delle nostre azioni, perché da sole non basterebbero a renderci uomini e donne completi, nel senso biblico dell’espressione, giacché «Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27): e come potremmo essere a immagine del nostro Signore, se non specchiandoci nella sua immagine proprio attraverso la fede in Cristo, intesa alla latina come la «fiducia» che nel suo sguardo d’amore ritroveremo l’integrità originale?

Lutero, con uno straordinario paradosso, dichiarava che l’essere umano in Cristo è simul iustus et peccator, «contemporaneamente giusto e peccatore», quasi a dire che la luce del bene ci viene anticipata grazie all’abbandono fiducioso in Dio. E, attraverso una seconda provocazione, diceva pecca fortiter, sed crede fortius, «pecca profondamente, ma credi più profondamente»: dunque la fede/fiducia è più forte del male giacché, se è accolta, ci orienta e dà un senso altro, una prospettiva diversa alle nostre vite.
«Soltanto la fede» perciò non esprime né la superstizione religiosa né le credenze miracolistiche, che rifiutiamo considerandole inutili e pericolose, ma è un atto di affidamento che non chiede dimostrazioni, è la scoperta dell’amore di Dio per ciascuno di noi. E tutto questo si fonda sull’ascolto della Parola biblica, sulla sua lenta meditazione, in un cammino di ricerca ininterrotto e promosso dal dubbio: il ragionamento umano non è in grado di comprendere fino in fondo e, quindi, di racchiudere in un sistema l’Eterno e l’evento della Croce e della Resurrezione, dato che lo Spirito di Dio è sovranamente libero. Come scrive Giovanni, «lo sprito soffia dove vuole e si sente la sua voce, ma non si sa da dove venga e dove vada» (Gv, 3, 8).

«Soltanto la fede» ci invita a sciogliere i cuori induriti per affidarci a Cristo, in cui solo possiamo trovare una vera dimensione di libertà perché sapere abbandonarsi all’amore, superando le sovrastrutture della ragione, ci permette poi di essere e di vivere nel mondo da persone davvero libere, che indirizzano le loro azioni senza vincoli, fuori dalle logiche del tornaconto: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10, 8).
«Soltanto la fede» fa risuonare l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che scriveva: «Non mi vergogno della buona notizia, […] poiché la giustizia di Dio è stata rivelata in essa da fede in fede» (Rom. 1, 16-17). La buona notizia, che noi siamo abituati a chiamare «Evangelo», ci è stata rivelata «di fede in fede» perché il giusto vivrà attraverso la fede e questa catena di fede/fiducia, trasmessa nei secoli, ci interpella ancora oggi – forse più di ieri, in quanto essa non è data per scontata, ma ci impone il confronto con una cultura e con un mondo in cui da un lato Dio (fortunatamente) non è più un obbligo e dall’altro assistiamo a devianti forme di fanatismo in nome di Dio.

Declinare oggi il Sola Gratia incontra una duplice criticità.
La prima è che nelle controversie teologiche, in atto almeno fino al secolo scorso, il tema della grazia è stato spesso frainteso, abusato e persino mistificato in funzione della sua interpretazione e della sua appropriazione come categoria distintiva di appartenenza.
La seconda è che l’avverbio «solo» ha un carattere di esclusività e di assolutezza che rende difficile abbinarlo a qualsiasi processo o evento in un contesto, come l’attuale, dove quasi ogni concetto è plurale, se non per definizione, almeno nell’ottica ecumenica che impone di condividere tradizioni diverse e approcci interpretativi talvolta divergenti.
Tuttavia l’interpretazione rivoluzionaria del concetto di grazia proposta da Lutero impone un tentativo di sua attualizzazione anche in un’epoca nella quale, almeno nella percezione comune, il tema della salvezza sembra aver perso gran parte della sua rilevanza oggettiva.

Nel Primo Testamento il termine ebraico hén (grazia) individua la benevolenza che Dio mostra verso l’essere umano e le scritture ebraiche raccontano che molti personaggi centrali della narrazione trovano grazia davanti al Signore: da Noè in Gen. 6, 8 a Mosè in Es. 33, 12.17, a Davide in II Sam. 15, 25. Ma l’atto di grazia più importante compiuto da Dio è l’aver stabilito un patto con Israele, mantenendolo nonostante le sue innumerevoli trasgressioni. In tutto il Primo Testamento affiora l’idea che il Signore sia un Dio che vuole salvare il Suo popolo e non distruggerlo: la grazia rappresenta appunto la Sua volontà di salvezza e il peccatore pentito può invocare con fiducia la Sua misericordia (Sl. 51, 1).
Anche nel Nuovo Testamento il termine ha mantenuto i significati di favore e benevolenza di Dio verso l’essere umano e la grazia espressa con il patto del Sinai viene confermata dall’alleanza tra Dio e l’uomo che si compie con la vicenda terrena di Cristo, cioè del Dio fattosi uomo, un’alleanza che non sostituisce l’antico patto con il popolo di Israele, bensì lo rinnova e lo affianca. La grazia si manifesta nell’intervento gratuito di Dio nella vita dell’essere umano e genera la sua risposta nella fede (At. 18, 27). La fede, a sua volta, introduce l’essere umano nella grazia, cioè in un rapporto di benevolenza e comunione con Dio (Rom. 5, 2), un rapporto in cui il peccato è perdonato. La grazia coincide con un perdono totale che rigenera: per questo è possibile affermare che il contrario del peccato non sia la virtù, bensì la grazia.
La grazia e la fede non sono realtà coincidenti, ma piuttosto complementari, poiché la grazia risiede esclusivamente nell’ambito di Dio, esplicitando un agire di Dio stesso che rivolge all’essere umano la Sua parola di salvezza, mentre la fede è sopratutto una questione antropologica, cioè una risposta dell’essere umano o, almeno, un interrogarsi consapevole su questo dono di Dio.

Il Sola Gratia della Riforma vuole sottolineare che il peccatore non può giustificarsi da solo, né coadiuvare in alcun modo Dio nell’opera della giustificazione, negando decisamente qualsiasi possibilità di compartecipazione dell’essere umano al processo della salvezza, che resta iniziativa e compimento esclusivi di Dio, in Gesù Cristo: prima di ogni risposta umana c’è il ricevimento della grazia, che viene accolta nella fede; prima delle opere umane c’è l’amore di Dio, che le precede; nell’evento della salvezza la risposta umana è conseguenza dell’iniziativa di Dio e si traduce in un’etica evangelicamente ispirata. La specificità del messaggio evangelico sottolineato dalla Riforma è proprio questo: l’intervento della grazia divina è decisivo, l’essere umano, con le sue capacità, la sua razionalità e le sue conoscenze, da solo, non può nulla.
Ma in una società nella quale vengono quotidianamente enfatizzate la prestazione e l’affermazione personali, dove l’essere umano vale più per ciò che appare che per ciò che è, il problema della salvezza interessa ancora, oppure il suo annuncio ha perso gran parte del suo significato? Benché oggi permanga ancora l’angoscia della morte, essa viene affiancata, addirittura superata, dalle angosce della vita, dalle nostre insicurezze, fragilità, paure e miserie quotidiane.

L’annuncio della salvezza non può non riguardare anche questi aspetti, una salvezza prima di tutto da noi stessi in quanto produttori delle nostre ossessioni, dei nostri vizi e dei nostri idoli, una salvezza che dia un senso a ciò che siamo e a ciò che facciamo, una salvezza gratuita che non si riduce al perdono delle colpe, ma che dia speranza alla nostra vita.
La grazia che ci salva rappresenta un messaggio controcorrente rispetto agli standard performativi che ogni giorno ci sono proposti mediaticamente, conferendo dignità a tutti, compresi coloro che si trovano ai margini di una società selettiva, gli ultimi, con i quali più di duemila anni fa si identificava Gesù Cristo.
«In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me». (Matteo 25, 40).

Dire «Solo Cristo» non significa giudicare o disprezzare la fede, la spiritualità, le credenze altrui. Significa solo dire che, per noi, Cristo è la via attraverso la quale Dio si rivela, e, di conseguenza, quella che intendiamo seguire. Una via, un percorso, non un concetto: lungo una via si cammina, ci si guarda avanti e indietro, ci si ferma o ci si accampa, si incontrano altri viandanti. Come ci ricorda il libro degli Atti, i primi cristiani erano chiamati «quelli della Via».

Cercare Dio solo in Gesù Cristo significa cercarlo nel confronto con un essere umano concreto, nato, vissuto e operante in un luogo e un’epoca storica precisa, morto di una morte atroce e vergognosa. In un mondo pieno più che mai di aspiranti maestri, sacerdoti e signori, per noi Gesù Cristo è l’unico Maestro, Sacerdote e Signore.
L’unico maestro: colui che per noi ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68), parole e azioni che ci mettono in questione, ci sconvolgono, ci fanno guardare con altri occhi le cose, le persone, i fatti della nostra vita.
L’unico sacerdote: il solo intermediario tra noi e Dio, che ha proclamato e attuato la fine del regime dei sacrifici e della distinzione tra sacro e profano. In Cristo non abbiamo più bisogno di luoghi santi, di professionisti del divino, di offerte sull’altare per placare l’ira di Dio o ingraziarcene i favori.
L’unico Signore: il condannato a morte, sconfitto e abbandonato da tutti, la cui autorità non si basa sul denaro, sulle armi, sulla parola seduttrice, il cui modo di agire mette in discussione tutti gli altri poteri. Il Crocifisso che, tre giorni dopo, è risorto. Con la sua risurrezione (caparra e speranza per ognuno di noi), Dio stesso ha annunciato che la morte e i poteri di questo mondo non hanno l’ultima parola.
Riconoscere il Solo Cristo significa relativizzare tutte le filosofie, le ideologie, le religioni, le potenze che aspirano alla nostra adesione e alla nostra obbedienza. Anche dopo la pretesa «fine delle ideologie» restiamo tentati di cercare la nostra sicurezza nell’abbandono acritico a qualche assoluto. Non ci sono solo i fondamentalismi religiosi: pensiamo ai nazionalismi, al razzismo, alla fiducia nella competizione, nella finanza o nel progresso scientifico.
Solo Cristo non è un integralismo contrapposto ad altri integralismi; è un criterio di libertà, soprattutto verso le idee, le cause, i modi di pensare che ci sono più vicini e congeniali. Il loro ruolo e valore è quello di strumenti per capire e cambiare la realtà, non di fini, di ideali da realizzare a ogni costo. Perché «tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo» (cfr. 1 Cor. 3, 22-23).

Avere Cristo come maestro non significa osservare il mondo dall’alto, con la sicumera di chi possiede la verità. Al contrario, significa imparare quello che Bonhoeffer chiama «lo sguardo dal basso»: guardare gli eventi dalla prospettiva «degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi». In Gesù Cristo ci viene rivelato non un Dio aggressivo e distruttore che rivaleggia con gli altri poteri per la conquista del mondo, ma un Dio sofferente e solidale con tutti e tutte noi, con tutti i dimenticati e gli sconosciuti, con tutta la creazione mai come oggi minacciata.
Il Solus Christus è un aiuto a orientarsi nell’incertezza di una società «liquida», priva di punti di riferimento, dove regnano il rischio, la precarietà, l’insicurezza, la disperazione. Nel Cristo crocifisso e risorto impariamo a vivere la nostra debolezza, senza lasciarci sballottare da «ogni vento di dottrina» (cfr. Ef 4, 14), né trincerarci in identità forti e assolute. Gesù ci libera dalla frenesia dell’attivismo (anche quello ecclesiastico) e dall’ossessione di salvare il mondo: al suo seguito c’è da lavorare, ma anche da pregare, da contemplare, da «stare in silenzio davanti al Signore e aspettarlo» (cfr. Sal 37, 7).
Gesù di Nazareth non è rimasto nella tomba, ma neanche cammina visibilmente su questa terra.
Crediamo che egli è presente tra noi, dovunque due o tre sono riuniti nel suo nome. Gesù ci ha lasciato la sua Parola da meditare, e il suo Spirito che ci aiuta a farla nostra. Ci ha lasciato il prossimo in cui cercare il suo volto, e sorelle e fratelli con cui ogni giorno costituire la chiesa che testimonia di lui.