Dal documento “Famiglie, matrimonio, coppie, genitorialità”:

Il protestantesimo invita a concepire ogni famiglia, coppiee relazioni genitoriali, come un nucleo di esistenze imperniate sulla vocazione, sulla formazione di un legame duraturo e sull’alleanza di grazia con Dio. Le nuove forme di famiglia, a volte percepite come una messa in crisi della cosiddetta «famiglia tradizionale», in realtà sono un contributo alla riflessione sulla vocazione dei/delle credenti: si creano così le condizioni per vivere tutte le forme di famiglia in modo cristiano, dato che per il protestantesimo storico non esiste un matrimonio cristiano – il matrimonio non è un sacramento – ma modi cristiani di vivere tutte leforme di comunità familiare.

Il tentativo è di allargare l’orizzonte sul modo plurale di «fare famiglia», rivolgendo l’attenzione non solo alla cosiddetta «famiglia tradizionale» fondata sul matrimonio ma anche ad altre forme di convivenza duratura, alle seconde nozze, alla genitorialità nelle sue diverse articolazioni quali la monogenitorialità, la genitorialità sociale nei casi di famiglie ricomposte o adottive, la cura di soggetti deboli o non completamente autonomi, la convivenza di più generazioni. Tali fenomeni sono presenti nella nostra società e nelle nostre chiese: si tratta di partire dalle situazioni reali che si incontrano ed entrano in comunione nelle nostre realtà ecclesiastiche, tanto più in questo tempo di globalizzazione e di incontro tra le differenze. Questa consapevolezza consente alla Chiesa evangelica valdese – Unione delle Chiese metodiste e valdesi […] di calarsi nella concretezza dei problemi e delle sfide quotidiane con accoglienza, amore,perdono e fiducia. […]

Per approfondire il documento completo è disponibile qui: https://www.chiesavaldese.org/aria_archives.php?archive=28

Una breve intervista, appena pubblicata, al Pastore Giorgio Tourn a cura di Sabina Baral.

Il pastore Tourn è stato presidente della società di studi valdesi, successivamente direttore e poi presidente del centro culturale valdese di Torre Pellice. E’ autore di numerose pubblicazioni tra le quali ricordiamo la traduzione e la cura dell’edizione italiana dell’Istituzione della religione cristiana di Giovanni Calvino.

L’intervista, sintetica, non è per questo meno intensa e densa di significati; risposte in grado di aprire squarci di riflessione e di luce:

Lo chiamiamo Dio, usando un linguaggio  religioso ma se volessimo usarne uno filosofico lo chiameremmo l’Assoluto, la Realtà Ultima … 

Dov’è Dio o dove sei tu rispetto a Dio …

Calvino: dove è il senso della vita del credente … 

La preghiera: non sappiamo pregare, ne facciamo una pratica religiosa, uno spazio cui dedicare un po’ di tempo, che richiede una gestualità ma pregare non è parlare a Dio, è sapere che sei davanti a Dio, è la coscienza di essere davanti a Dio …

Da ascoltare con attenzione:

 

Qualcuno l’ha definita “teologia pop”, cercando di identificare un genere che accosta senza timori i temi teologici ad elementi della cultura popolare: dal fantasy alla fantascienza e , perchè no, al fumetto d’autore. L’accostamento a prima vista ardito è quello capace -scardinando approcci tradizionali- di spingere alla riflessione. Chi ha detto che la profondità del pensiero non possa essere favorita dalla rottura di schemi consolidati?   In questo solco si muove il testo “Il vangelo secondo Mafalda” di Marco Dal Corso, che lunedì 17 dicembre 2018 alle ore 20,30 presso il tempio valdese di Verona di via Duomo angolo via Pigna, sarà presentato dall’autore in dialogo con la Pastora Laura Testa della chiesa valdese di Verona.

L’ingresso è libero.

Al link la locandina dell’evento:

DalCorso-Mafalda-locandina-b3

Nuove prospettive

La “new perspectivea partire dagli anni 60 del ‘900, svela un mondo ebraico non compatto. Molto difficile riconoscere il giudaismo del I secolo. Al tempo di Gesù la maggioranza degli ebrei sono ellenizzati. Non solo ad Alessandria, anche a Gerusalemme. Gli ebrei nel bacino del mediterraneo parlano per lo più greco; a livello internazionale è l’ebraismo di maggior successo, aperto, teso al confronto. Assistiamo in Palestina all‘affermazione di sadducei (aristocrazia religiosa) e farisei (maggiormente normativi). Pensiamo inoltre agli esseni (non isolati come si credeva un tempo, esisteva un quartiere esseno a Gerusalemme), agli zeloti , che scompariranno nel 135 d.C. con l’ultima e definitiva sconfitta subita nelle guerre contro Roma. Non è corretto inoltre affermare che gli ebrei attendessero uno specifico tipo di Messia , intendevano diversi tipi di Messia.Difficile quindi dire cosa gli ebrei del primo secolo pensassero come collettività . Il movimento cristiano, termine anacronistico, potremmo dire più correttamente “gesuano”, si inquadra come movimento interno all’ebraismo, nato su basi carismatico-escatologiche. Un mondo quindi agitato da correnti con differenze sociali, culturali e teologiche anche rilevanti, non caretterizzato o descritto nella sua interezza e complessità dal movimento farisaico. La riforma del II secolo d.C. porterà al giudaismo di impronta rabbinica, che punterà alla definizione e conservazione della propria identità, in linea con i contenuti della riforma di Esdra e Neemia del IV secolo a.C. . Potremmo addirittura dire che l’ebraismo rabbinico ed il cristianesimo sono le due forme del giudaismo del primo secolo sopravvissute fino ad oggi.

Le diverse correnti nell’ebraismo del I secolo.

Gli ebrei del secondo tempio (come i primi cristiani ) considerano il tempio il centro della relazione tra l’uomo e Dio.

L’autorità del tempio è quella dei sadducei: il gruppo dominante in termini politici e religiosi, la corrente istituzionale, gli altri gruppi sono di opposizione o di riforma. Si è sacerdoti per nascita e non per scelta, (non tutti i membri delle famiglie sacerdotali sono sadducei) . Annah e Caiafa sono sadducei. Gli altri gruppi pongono al centro della loro interpretazione dell’ebraismo altri elementi.

I fariseiesaltano la Torah:affermano che le leggi morali che riguardano il rapporto tra uomo e Dio , tra uomo e uomo, sono più importanti dei sacrifici; Gesù è d’accordo con loro. Se si pone al centro la Torah è importante l’insegnamento dei maestri, dei rabbini, degli scribi: il ruolo degli interpreti è quindi più rilevante di quelli che svolgono un ruolo cultuale nel tempio.

Gli ebrei ellenistici pongono al centro la sapienza creatrice o la legge naturale che Dio ha dato a tutti gli uomini , l’ordine divino che Dio ha stabilito nel momento della creazione: legge data non solo a Israele ma a tutta l’umanità; l’ebraismo è la religione del cosmo non solo degli ebrei. I primi a predicare ai gentili sono stati gli ebrei ellenistici. Moltissimi i gentili che frequentavano le sinagoghe: “timorati di dio”, non ebrei, che avevano accettato di vivere secondo la legge del Dio unico . Per gli ellenisti gli ebrei nascono per essere i sacerdoti dell’umanità, analogamente ai leviti che sono nati per essere i sacerdoti all’interno del popolo ebraico. Il popolo di Dio è quindi fatto da ebrei e non ebrei. I non ebrei erano ben accolti nel tempio di Gerusalemme, erano solo esclusealcune parti in cui non potevano entrare . L’universalismo di Isaia aveva fatto comprendere che il tempio è il tempio delle genti. Chiunque poteva offrire sacrifici nel tempio.

Gli esseni dei manoscritti del mar morto erano una piccola comunità (150 persone) , la maggior parte viveva nelle città della giudea, a Gerusalemme vi era un quartiere esseno , i contatti tra Gesù ed esseni sembrano essere stati molto forti . Le prime comunità cristiane si sono date strutture mutuate dagli esseni: la comunione dei beni , il banchetto eucaristico, il rituale di iniziazione. Gli esseni pongono al centro l’attesa messianica; hanno una visione pessimista della potenza del male sulla terra, pensano che il mondo sia corrotto da un peccato angelico: ecco la caduta degli angeli. Il cristianesimo allude continuamente a questi elementi della letteratura apocrifa giudaica, ad esempio Gesù guarisce dagli spiriti maligni, non descritti perché noti a tutti. Abbiamo una forza demonica che è tentatrice e corruttrice, l’uomo è vittima di un male cosmico. La venuta del Messia è attesa nella tradizione essenica come il momento in cui il potere del male cessa , secondo gli esseni avverrà alla fine dei tempi. Gli esseni vivono nell’attesa della fine di questo mondo.

Quindi i vari gruppi potevano rifarsi agli stessi elementi della tradizione e delle scritture ma con pesi e interpretazioni decisamente diversi : all’interno della propria tradizione cambiava la pietra angolare e quindi cambiava l’edificio.

Paolol’ebreo (o il cristiano?)

Paolo era fariseo di Tarso, città “border line” tra mondo ellenistico e giudaico. La filosofia stoica era diffusa nella città, la comunità ebraica ellenistica era fortemente rappresentata. Paolo, di madre lingua greca, bilingue, discepolo di Gamaliele, studia a Gerusalemme, all’interno della tradizione farisaica, ebreo della diaspora, cittadino romano (di nascita, per meriti probabilmente acquisiti dalla sua famiglia) in un’epoca in cui era privilegio di pochi, appartiene ad una elìte. Leggendo gli Atti degli Apostoli e le Lettere Paoline si ha l’impressione che si orienti verso posizioni zelote (ala radicale, fondamentalista, che riteneva che i principi della religione ebraica dovessero essere difesi o imposti con la forza in preparazione del mondo a venire: responsabilità militante) . Ecco Paolo presentato come persona che perseguita alcuni gruppi cristiani . I cristiani si aggiungono alla lista dei movimenti ebraici del tempo. Viene perseguitato il gruppo di Stefano: è l’attività di alcune frange ebraiche contro altri gruppi ebraici del proprio tempo. Paolo secondo la tradizione si converte; Paolo nelle lettere continua a dire di essere ebreo. E’ come se un ebreo ultra ortodosso divenisse riformato, o un cristiano evangelicale divenisse cattolico. Non è una conversione, cambia la collocazione all’interno del cristianesimo: cambia la modalità di essere ebreo, non la sua identità. E’ il passaggio dal fariseismo in una connotazione zelota ad un gruppo messianico. Paolo non dice che non è più ebreo , afferma che il suo modo di intendere l’ebraismo è cambiato: quello che riteneva essenziale non lo ritiene più . La predicazione di Paolo sarà verso gli ebrei ellenisti. Negli Atti si descrive come primo convertito l’eunuco etiope: un “timorato di Dio” che appartiene alla comunità giudeo ellenistica, in pellegrinaggio al tempio. Il cristianesimo approda nelle città. Ecco quindi un fenomeno “moderno”, attraverso le strade romane si diffonde nel bacino del Mediterraneo . Nasce nella pluralità e conflittualità , si diffonde nella pluralità e conflittualità. Nella Lettera ai Colossesi il contesto parenetico rivela come l’identità si riconosca nel comportamento: letica è comunicazione quindi. Il rivestirsi di Cristo è tradizione, riportata anche in Galati: qui lo status non è condizionante dell’identità nuova in Cristo. Anche la tradizione del battesimo, che nasce ad Antiochia, identifica la nuova realtà, allinterno di un percorso di continuità con la circoncisione: per l’ebreo Paolo il battesimo non è un surrogato della circoncisione ma è la circoncisione. L’identità in Paolo è quella battesimale, comune ai credenti . Un identità che per Paolo non cancella ma supera la precedenti: giudei e greci, schiavi e liberi sono identità che sono disinnescate dal battesimo; si accolgono nella comunità perché relativizzate. I testi paolini sono di conseguenza inclusivi : lappartenenza a sé stessi viene depotenziata, l’uomo nuovo rinasce in Cristo perché è Cristo che vive in lui. All’universalismo del giudaismo ellenistico segue l’universalismo del cristianesimo.

Un “cristianesimo giudaico”?

Alcuni studiosi si sono posti il quesito su chi sia l’oggetto della polemica di Paolo avversa al giudaismo delle opere, non esistendo di fatto un’ unica forma. In tal senso vi sono ipotesi audaci: ad esempio vi è chi ritiene che Paolo non si rivolgerebbe, parlando di “etnéai pagani bensì agli ebrei ellenisti, non osservanti, cercando di saldarli a Gesù. La vera contrapposizione quindi sarebbe tra circoncisi osservanti e giudei incirconcisi non osservanti ellenisti . Avremmo quindi un cristianesimo come movimento puramente giudaico almeno fino  al II secolo.

Alessandro Serena

Bibliografia:

Theissen G., Merz A., Il Gesù storico. Un manuale. Queriniana, Brescia 1999.

Becker J., Paolo l’apostolo dei popoli. Queriniana, Brescia 1996

La Bibbia TOB, Elledici Torino 2010.

A sciogliere il quesito del titolo, se possibile, ci aiuterà il testo di Peter L. Berger: Questioni di fede. Una professione scettica del cristianesimo edito da Il Mulino, che  si pone come una ricerca di estremo interesse dell’autore delle ragioni della fede cristiana e del suo rapporto con le altre tramite un’analisi del credo.

L’autore

Peter Ludwig Berger è è nato a Vienna il 17 marzo 1929, emigrato nella Stati Uniti poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale si è laureato nel 1949 al Wagner College (Bachelor of Arts), continuando i suoi studi sociologici alla “New school for social research” a New York, conseguendo il dottorato nel 1952. (1) Professore emerito di Religione, sociologia e teologia presso il dipartimento di scienze religiose della Boston University; direttore dell’Institute of Religion and World Affairs dello stesso ateneo. Ha insegnato in precedenza alla New School for Social Research, alla Rutger University ed al Boston College. Ha scritto numerosi libri di sociologia, sociologia delle religioni e sviluppo del terzo mondo, tradotti in dozzine di lingue. Nel 1992 è stato insignito dal governo austriaco del Manes Sperber Prize per significativi contributi alla cultura. Dal 1985 è direttore dell’Istituto per lo studio della cultura economica, organismo impegnato nello studio sistematico delle relazioni tra sviluppo economico e cambiamento socioculturale in diverse parti del mondo (2). In Italia ha pubblicato con le edizioni Il Mulino, Bologna: “La realtà come costruzione sociale” (1969), “Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo” (1994), “Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea” (1995), “Homoridens. La dimensione cosmica nell’esperienza umana” (1999). Il titolo del  testo oggetto di questo articolo esprime l’approccio dell’autore che definendo il proprio ragionamento come scettico, intende descrivere un proprio atteggiamento svincolato dalle tradizioni religiose storiche (3). Ci riuscirà in parte. Tale libertà in realtà è equilibrata dal riconoscersi -sebbene con alcune cautele- all’interno della tradizione della Riforma, luterana in particolare. Tra le tre visioni relative all’ecumenismo ed al dialogo interreligioso (esclusivista, pluralista, inclusivista: nella prima si ritiene il cristianesimo come verità assoluta, nella seconda si concede il più possibile alle altre tradizioni lo statuto di verità, nella terza posizione, più comune, quella inclusivista, si afferma la propria verità accettando nel contempo possibili verità in altre tradizioni), Berger si ritiene inclusivista, considerando come la Verità, il Logos Spermatikos definito da Giustino sia appunto diffuso nel creato, anche all’interno di altre confessioni, pur mantenendo egli ben salda la specificità del Cristianesimo.

Lo sviluppo dell’opera

Il testo intende sostanzialmente rispondere al quesito: “Perché la religione dovrebbe essere interessante?”. Definendo il proprio approccio come espressione di una teologia laica, Berger intende compiere un’analisi dei fondamenti della fede cristiana attraverso il credo apostolico, si tratta di una professione scettica del cristianesimo, in quanto non presuppone la fede e non si lega nelle intenzioni ad alcuna delle tradizionali autorità in tema religioso. Per farlo l’autore ricorre al costante confronto con quanto il pensiero cristiano ha elaborato di significativo, in particolare con la teologia del XIX e XX secolo. Il percorso rappresenta quindi una professione di fede che se da un lato è collocata all’interno della formula tradizionale, dall’altro è oggetto di analisi dell’autore che non esita a distaccarsi in alcuni casi dai contenuti della tradizione, per osservarli alla luce di riflessioni tratte da approcci della teologia anche molto distanti tra loro e di considerazioni personali. Spicca la ricerca del confronto col pensiero di John Hick, che Berger avversa ma che evidentemente ritiene significativo per definire -procedendo per differenziazioni- il proprio. Non si tratta comunque di pensieri in assoluta libertà: Peter Berger nella prefazione si riconosce nel protestantesimo liberale con un esplicito richiamo a Friedrich Schleiermacher (4) e non mancheranno nel testo espliciti rimandi al luteranesimo. Analizziamo ora il testo nei suoi principali contenuti, procedendo riunendo gli articoli del credo, che Berger illustra in dodici capitoli, in tre sezioni relative al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo. Intendo inoltre dedicare un paragrafo autonomo al confronto col pensiero di John Hick per la frequenza con cui emerge nell’opera oltre ad uno di considerazioni personali.

Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra …

E’ partendo dalla considerazione della realtà dietro la nostra esperienza quotidiana come benevola, che nascono l’apertura al trascendente, l’esperienza religiosa. Meglio: le esperienze religiose, poiché la modernità a causa dei mezzi di comunicazione di massa, dei flussi migratori, dell’urbanizzazione, mina il consenso sociale che tendeva in passato a sostenere una singola religiosità all’interno delle diverse società. La modernità problematizza, richiede con sempre maggiore insistenza una riflessione teologica al credente, per quanto rudimentale, capace di sostenere il confronto con altre religioni. Si apre un’opzione un tempo meno frequente o addirittura impossibile: la scelta del proprio credo. La pluralità quindi alimenta il confronto ma permane la scelta religiosa di fondo come tessuto sostanzialmente comune: quando si decide di avere fede si ritiene sostanzialmente il creato come buono, all’interno di un disegno che non ha come destino ultimo la distruzione di quanto abbiamo di più caro. La fede è la fiducia nella bontà del mondo (5), detto in poche parole. E’ la mente moderna che oggi si confronta con Dio, in particolare col silenzio di Dio ed in tal senso Simone Weil rappresenta un esempio paradigmatico: l’indicazione della presenza di Dio è la sofferenza per la sua assenza, una “via negativa” il cui nucleo è che il pensiero razionale e la parola umana non possono penetrare il mistero consentendo la comprensione di Dio. Nei misticismo delle grandi religioni si rileva un viaggio che inizia nell’oscurità, nel silenzio, per approdare al livello più profondo della realtà. Un misticismo transculturale che è accomunato dall’alternanza tra preghiera incerta e senso di certezza, una lotta che ancor più nella modernità risulta drammatica. Secondo la tradizione agostiniana la riflessione è comunque necessaria, precede l’atto di fede ma non rappresenta l’unico aspetto rilevante ai fini della fede, l’attenzione si fovalizza sulla rivelazione: in qualche modo, luoghi e tempi particolari, il silenzio di Dio si è interrotto. Riconoscendo l’approccio di John Hick come eccessivamente inclusivista, quello di Karl Barth come esclusivista, quello di Paul Tillich e Karl Rahner come inclusivisti, Berger ritiene di perseguire una propria concezione inclusivista rifacendosi a Ernst Troeltsch ed alla sua “intuizione secondo la quale la Bibbia sottolinea con enfasi il valore e la dignità straordinari della persona umana” (6); oltre al fatto che “c’è una correlazione ontologica tra la personalità di Dio e la personalità degli esseri umani” (7); in questo riflettendo a mio avviso il pensiero più maturo di Barth . Rifacendosi poi al pensiero di Giustino ed al suo Logos spermatikos, lo ritiene utile per definire una “teologia della matrice mitica”, ovvero negando che tutte le idee religiose su base mitica siano pure illusioni: affermare l’unicità di Dio , come fanno le religioni del Libro, non contraddice il concetto dei semi della Verità sparsi liberamente. Quindi “riconoscere nell’atto di fede che Dio si è rivelato in maniera unica non significa a priori negare che Dio possa essersi rivelato in altri luoghi e in altri tempi. “ (8). Affrontando la teodicea alla luce dello scandalo del male e della Shoah, si evidenzia quanto Hans Jonas ha scritto in merito alla rinuncia dell’idea contemporanea di bontà ed onnipotenza di Dio, connettendola alla tradizione cabalistica di Jizchaq Luria secondo la quale la contrazione di Dio per fare spazio al creato (tzim tzum) lo porrebbe in una posizione sofferente e limitata. Un Dio che diviene , che non ha ancora raggiunto la pienezza del suo essere. Un Dio sofferente ha una forza irresistibile, collegata a diversi temi biblici, sebbene Jonas confessi tutto ciò come un balbettio. E’ citando Giuliana di Norwich che Berger riferisce com’ella esprima l’intero universo visto dal punto di vista di Dio, secondo la sua celebre frase, frutto di una esperienze mistiche: “Posso portare ogni cosa al bene, sono in grado di portare ogni cosa al bene, porterò ogni cosa al bene, voglio portare ogni cosa al bene; e vedrai tu stessa che ogni specie di cosa sarà bene” (9).

… e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore …

Berger definisce le fasi della ricerca sul Gesù storico:

Prima ricerca: nel contesto della teologia liberale del XIX secolo; la ricerca storica non è in grado di sostenere la visione ortodossa tradizionale di Gesù, i testi del Nuovo Testamento non hanno validità storica.

Seconda ricerca: nel secondo dopoguerra; lo storico può lavorare anche sui documenti del Nuovo Testamento

Terza ricerca: a partire dagli anni 80 del XX secolo; Gesù è pienamente collocato nel contesto ebraico.

Nel pensiero protestante del XX secolo si identificano in particolare Rudolf Bultmann e Paul Tillich. Bultmann avverte la necessità di demitizzare il Nuovo Testamento, traducendolo in un linguaggio non mitologico e focalizzandolo sull’annuncio, sul kerygma. Berger ravvisa un valore nel principio bultmaniano, corrispondente al concentrazione su Gesù come evento che si è rivelato in quanto -come detto da Lutero- “Cristo per me” (10). Lo stesso concetto luterano è dall’autore rilevato anche nel pensiero di Tillich: Cristo diviene il simbolo che conduce a una nuova forma di esistenza, distante dal Gesù storico; è la partecipazione, non la prova storica che fornisce una vita personale dove il nuovo essere ha vinto. Evidenziando come la Resurrezione sia fondamento della fede e la redenzione operata da Cristo sia un fenomeno cosmico, Berger vede nella kenosis e nella Resurrezione, rispettivamente, il massimo sforzo di benevolenza e di onnipotenza da parte di Dio. Se quindi l’autore condivide con Bultmann e Tillich la necessità di liberare il Cristo della fede dal Gesù storico, ne rifiuta l’interpretazione che il Cristo sia un simbolo ella condizione umana, a favore dell’evento cosmico della redenzione. Alla luce del passo di Corinzi 5,19 “Dio era in Cristo” si intende quindi coagulare un qualcosa di eterno, di trascendente, una Parola incarnata fin dall’inizio nei piani di Dio. Un Dio credibile attraverso la kenosis, partecipe della sofferenza di questo mondo che Egli sa trasformare in vittoria. Gesù non può essere una mera rappresentazione simbolica, la rivelazione ha portata cosmica: la morte è vinta, il difetto nella creazione deve essere riparato . Un cristianesimo che promettesse qualcosa di meno, sarebbe inutile (11).

… credo nello Spirito Santo …

Si identificano secondo l’opinione dello storico della chiesa Jeffrey Russel, due tradizioni cristiane dello Spirito, definite: “spirito dell’ordine” e “spirito della profezia” (12). Nel primo caso si intende uno Spirito e relativi doni attribuiti alla chiesa in quanto istituzione -conseguenza è che si può accedere allo Spirito solo attraverso essa- mentre nel secondo lo Spirito si esprime liberamente al di fuori e dentro le istituzioni, senza la loro mediazione, spesso in opposizione a queste. Si ravvisano alcuni pericoli in entrambe: la prima può portare ad una sclerotizzazione, la seconda al caos. Berger tendenzialmente propende per la prima: “le istituzioni ecclesiastiche si considerano abbastanza ragionevolmente, guardiani e amministratori dello Spirito” (13). Il potenziale rivoluzionario dello “Spirito che soffia dove vuole” (Gv 3,8) non sfugge all’autore che cita ad esempio il movimento anabattista del XVI secolo opposto alla chiesa istituzionale protestante, oppure le varie eresie combattute dalla chiesa cattolica. L’impronta luterana di Berger emerge nuovamente nel considerare la Bibbia come un testo morto senza lo Spirito, il solo capace di impedire che i sermoni siano espressioni di mere idee umane e i sacramenti dei vuoti formalismi: la presenza reale di Cristo, la Parola di Dio nel kerygma e nei sacramenti è sempre opera dello Spirito. In un certo difficile equilibrio tra istituzione e libertà dello Spirito cerca di muoversi Berger, ritenendo come la fede cristiana richieda un ancoraggio istituzionale ma che la scelta migliore per i cristiani: “dovrebbe consistere nel radunarsi attorno ad un palco da cui è predicato il Vangelo e dove, seppur fievolmente, si cerca di partecipare alla liturgia cosmica. Ma non si dovrebbe assolutizzare la scelta di alcun palco in particolare” (14).

John Hick in Peter Berger

A rappresentare la scuola pluralista è John Hick che , come riporta l’autore, non ritiene che la nostra tradizione rappresenti un nucleo di verità assoluta. Sostenitore di una rivoluzione copernicana la realtà ultima è il centro attorno al quale ruotano le varie tradizioni religiose, in grado di cogliere la verità in maniera parziale. Il nucleo comunque una realtà trascendente e benevola affrontata in maniera differente. Hick ritiene che l’incarnazione di Dio in Gesù sia solo un mito e che di conseguenza la dottrina trinitaria vada superata. Sostiene il concetto di Upaja, di origine buddista: un aiuto, un sostegno, una sorta di stampella che, utile per affrontare un tratto del percorso possa poi essere abbandonata. Ecco che il cristianesimo rappresenterebbe un Upaja.  Se le diverse tradizioni religiose sono in grado di raggiungere o rappresentare spicchi di realtà, sono più o meno vere -secondo Hick- in base ai contenuti morali: se esse aiutano gli uomini ad amare ed a superare il proporio egoismo . L’inclusivismo (sic) di Hick è ritenuto da Berger eccessivo, in un’opera di relativizzazione della realtà che la renderebbe negletta: la verità piegata ad un utilitarismo sociale. Il criterio di validità di Hick -secondo Berger- consiste nel definire se una tradizione religiosa spinga o meno i suoi adepti a essere altruisti o meno: ecco che la verità subordinata alla morale significherebbe la verità soggetta alle qualità morali delle persone. Berger impiega l’esempio di Einstein: la teoria della relatività sarebbe meno valida se Einstein non fosse stato un uomo buono? Il pensiero di Hick è conseguentemente ritenuto debole: le testimonianze storiche delle varie religioni manifestano le ridotte qualità morali di molti adepti, eventi mostruosi hanno caratterizzato la storia dell’umanità in tal senso. La morale non può quindi essere indice dello stato della relazione con la verità di una confessione poiché la valutazione viene condotta attraverso il comportamento dei credenti, indice inaffidabile. Sempre in relazione ad una visione pluralista Berger cita Eric Voegelin il quale ritiene come l’alba della storia sia essenzialmente mitica e come in determinati momenti della storia si abbia una rittura di questo ordine mitico in diversi luoghi: l’apparizione del confucianesimo, del buddismo, dei Vedanta. Altre rotture in tale ordine sono rappresentate dalla filosofia greca e da Israele, definite rispettivamente da Voegelin “scoperta della ragione” e “scoperta di Dio”. Inserisco il riferimento a Voegelin nel paragrafo su Hick poiché credo che tutto sommato tale visione sia connessa al concetto (sebbene non citato) di “era assiale” di John Hick : un periodo che spazia tra l’800 ed il 200 a.C. in cui “in tutto il mondo comparvero individui straordinari che emersero nelle rispettive società per rendere note le loro eccezionali intuizioni” (15). Confucio, Buddha, Zoroastro, i Profeti biblici. Potremmo definirle anch’esse come rotture della matrice mitica. Ancora nella ricerca del confronto con Hick, Berger cita il testo del 1977 da lui curato “The myth of God Incarnate”, dove lo ritiene in accordo con Bultmann: è necessario trascurare gli elementi mitologici e concentrarsi sulla figura di Gesù, ritenuto un grande maestro e degno di ammirazione. L’autore sottolinea come tale figura sarebbe priva di interesse a cui possibile tranquillante rinunciare. Ulteriore confronto è in relazione all’escatologia; Berger critica la conclusione di Hick che allude all’idea di un oceano cosmico che assorbirebbe tutti noi, sostenendo egli l’idea del bardo, tratto dal libro tibetano dei morti, un mondo illusorio attraverso il quale l’individuo deve passare sulla via che lo conduce all’incarnazione successiva, rendendosi necessario un tempo oltre la morte in cui il processo di perfezionamento possa procedere. In sostanza, per Berger, Hick “non prende la morte abbastanza sul serio” (16).

Commento

Nel confronto con John Hick in cui Berger critica la valutazione delle fedi in base a contenuti morali, trovo debole proprio il pensiero di Berger in quanto effettua un pericoloso accostamento tra la dottrina delle religioni e le qualità morali dei rispettivi fedeli. Se è vero che la storia è intrisa del sangue sparso in nome di Dio è altresì vero che l’uomo è fallace indipendentemente dalla confessione che professa, più o meno giustamente. Senza aprire il capitolo su quanto un credente sia rispettoso degli insegnamenti del proprio credo, originando un’analisi legalista delle religioni, è sufficiente mantenere i piani distinti per comprendere come l’esempio di Einstein citato da Berger non sia adeguato e sia utile piuttosto a sostenere la tesi contraria a quella dell’autore. La dottrina della relatività potrebbe essere corretta o meno indipendentemente dalla bontà di Einstein esattamente come una statua di Rodin comunque può generare ammirazione, riflessione od estasi indipendentemente dalla moralità dell’autore, senza che il valore dell’opera ne venga compromesso, proprio perchè si valuta l’opera stessa. Una religione che professa il sacrificio di bambini è indubbiamente diversa da una che li tutela. Berger definisce la propria visione come inclusivista, sebbene in realtà non sia così identificabile. Le radici luterane in realtà profonde, la considerazione dell’unicità della rivelazione del Dio della Bibbia ebraica e del cristianesimo lo spingono in quella direzione. Altresì nella descrizione del Logos spermatikos, Berger riconosce che Dio possa essersi rivelato anche altrove . Diviene a mio avviso a questo punto difficile non sostenere questa visione come pluralista. Un conto è accennare a frammenti di verità sparsa nel mondo, un altro di rivelazione divina. Se di quest’ultima si tratta è difficoltoso parlare di gradi e valori di rivelazione diversi. In altre parole a mio avviso se Dio, Egli Stesso, si rivela nella storia, non può rivelarsi parzialmente , essendo tale rivelazione comunque una visione del Totalmente Altro, dell’Incommensurabile. Credo maggiormente opportuno trattare se una rivelazione sia vera o meno, se rimandi al Creatore o meno. Se si riconosce che Dio si può rivelare altrove , con un’azione Sua, con la Sua volontà, per propria iniziativa, credo sia più adeguato riferirsi al pluralismo. Riemerge comunque un approccio inclusivista quando Berger riporta come non si possa parlare di: “onnipotenza di Dio senza considerare che si è rivelato come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe e del nostro Signore Gesù Cristo” (17), pena il fatto che allora le questioni relative alla verità si dissolvano. Credo che quindi sia in realtà difficilmente collocabile Peter Berger manifestando egli una certa tensione tra i due approcci. Di interesse i paragrafi che trattano la teodicea che , spaziando da Giuliana di Norwich alla dottrina cabalistica dello Tzim Tzum, riesce bene nel balbettante tentativo (non è definibile diversamente in effetti) di gettare squarci di luce sulla Verità. Proprio in relazione al pensiero del ritrarsi di Dio, mi piace rafforzare il concetto con quanto ha scritto Sergio Quinzio: “Senza questo ripiegamento in se stesso dell’infinito Dio, non potrebbe esserci al di fuori di Lui una realtà diversa e solo questa situazione preserva le cose finite dal perdere nuovamente la loro specificità reimmergendosi nel divino” (18). La realtà stessa, l’individualità, la coscienza dell’uomo e della donna rendono necessaria e irrinunciabile la contrazione divina!

A dispetto del sottotitolo “una professione scettica” che pare sottendere ad una profonda critica dei fondamenti della fede, Berger parte dalla base irrinunciabile della Resurrezione come fondamento della fede; nella sua cristologia si rivela perfettamente ortodosso, erede della tradizione luterana e alieno da qualsiasi interpretazione che riduca o affievolisca la portata soteriologica per l’umanità ed il creato delle morte e Resurrezione di Cristo. Ritengo sia questo il punto più alto raggiunto da Peter Berger nella sua dissertazione sul credo. Cogliendo pienamente il cuore del messaggio cristiano egli esprime nettamente l’inaccettabilità della morte per Dio, come sarà sancito dalla manifestazione finale della redenzione; la fede afferma che siamo stati creati per essere eterni: un essere senza la morte.

Alessandro Serena

 

Bibliografia:

1 http://www.biographybase.com/biography/Berger_Peter_L.html; consultato il 15/04/2017.

2 http://www.bu.edu/religion/people/faculty/bios/berger/; consultato il 15/04/2017.

3 Berger, Peter L.: Questioni di fede. Una professione scettica del cristianesimo. Il Mulino, Bologna , 2005. Pag. 7.

4 Ivi. Pag. 8 .

5 Ivi. Pag. 18.

6 Ivi. Pag. 37.

7 Ibid.

8 Ivi. Pag. 51.

9 Ivi. Pag. 68.

10 Ivi. Pag. 95.

11 Ivi. Pag. 171.

12 Ivi. Pag. 183.

13 Ivi. Pag. 185.

14 Ivi. Pag. 211.

15 Hick, John; La quinta dimensione. Edizioni mediterranee, Roma. 2006. Pag. 21.

16 Berger, op. cit. Pag. 251.

17 Ivi. Pag. 192.

18 Quinzio, Sergio; La sconfitta di Dio. Adelphi, Milano 2008. Pag. 40.

 

Narrano i cieli la gloria di Dio, gli spazi annunziano l’opera delle sue mani
(Salmo 19)

«È privo di fondamento (…) questo legare l’uomo a se stesso, anziché fargli prendere coscienza del fatto che un corretto orientamento dell’esistenza scaturisce da una volontà di ricercare, accrescere, esprimere la gloria del Signore». Questa la risposta, cioè «Soli Deo gloria», solo a Dio la gloria, che Giovanni Calvino manda da Ginevra nel settembre del 1539 al cardinale di Carpentras Jacopo Sadoleto. Quest’ultimo, nella sua lettera del marzo dello stesso anno, aveva invitato pubblicamente i ginevrini, con i quali Calvino viveva in quel momento tutta la novità della Riforma, a ritornare sulla «retta via» della Chiesa cattolica. A rendere quindi «gloria», piuttosto, alla sua Chiesa, alla disciplina, alla dottrina, ai dogmi.
Senza i dogmi e i sacramenti della tradizione cattolica, aveva scritto il cardinale, sarebbe preclusa la vita eterna ai credenti ribelli. Una minaccia terribilissima che, come Calvino sottolinea, tende a tenere imprigionate le anime a cui non sia permessa una propria originale «lettura» della Parola delle Scritture, e quindi un dialogo libero, personale, confidente e responsabile, con il Dio che la Riforma vuole recuperare in tutta la sua gloria «esclusiva».

Soli Deo gloria diventa uno dei cinque «Sola» della Riforma, fondamentale e fondante degli altri quattro. Perché per rendere gloria a Dio, che vuol dire amarlo per la sua bontà e la sua creazione di cui facciamo parte, bisogna ascoltare la propria vocazione, cioè la Fede, nutrirla con la Scrittura, gioire della Grazia, riferirsi costantemente all’esempio di Cristo. Ed esprimere e declinare sempre nuovi contenuti e comportamenti in modo appunto che Soli Deo gloria possa continuare e ribadire il proprio significato nelle varie e mutevoli condizioni storiche.
Cambiano infatti nel corso della storia gli idoli a cui opporsi, ma Soli Deo gloria indica di epoca in epoca la loro inconsistenza, anche quando la massa umana li sacralizza. Oggi questi idoli sono il profitto e la finanza, lo sfruttamento di una parte del mondo su un’altra, la tecnologia fine a se stessa, quella scienza che si autorizza e si compiace con arroganza dei propri risultati. Abilità e conoscenze, e il potere che ne deriva, illudono gli uomini di essere centrali e autosufficienti. È l’eterna e diabolica superbia che si incarna, a seconda dei tempi e dei luoghi, in diversi personaggi e diverse ideologie autocelebrative. Desiderio di superare il limite posto all’essere umano, che ha le proprie radici nella preistoria, come ci insegna il mito di Adamo ed Eva. Tentata prima Eva, forse perché il matriarcato ha illuso le donne di un proprio potere nel generare la vita, poi Adamo quando, sempre nella notte dei tempi, il «maschile» ha ribaltato la situazione di potere sottomettendo il «femminile».

Tutto l’Antico testamento racconta come Dio, nella sua assoluta libertà, ha scelto, tra popolazioni adoranti dee madri, animali, feticci e faraoni, il popolo ebraico perché era quello con cui Egli si poteva più facilmente relazionare. Il patto della circoncisione forse segna proprio questo rendere gloria all’unico vero potere generativo che appartiene a Dio e non all’uomo, siglato attraverso un segno visibile nella carne.

Dio assegna al popolo ebraico in quei tempi il compito di tramandare il proprio messaggio d’amore. Che si esprime nella consegna a questo sparuto e spaventato gruppo di esuli della prima incontrovertibile testimonianza, appunto, della paterna attenzione verso l’umanità, che si dibatte dentro le proprie debolezze e fragilità e confusioni: i dieci Comandamenti, che fanno una lapidaria chiarezza su ciò che è bene e ciò che è male, e che iniziano proprio con «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Un Dio che, andando a ritroso nel racconto, aveva già insegnato attraverso l’episodio di Abramo, disposto a uccidere il proprio figlio, che i sacrifici umani, che al tempo erano una pratica comune, non erano necessari alla sua gloria, non erano graditi, non erano permessi.

Se la parola «gloria» ci sembra impegnativa, se può condurre a immaginare un Dio Padre lontano nell’«alto dei cieli», possiamo correggere la sensazione tornando, nella Trinità, alla figura e all’esempio illuminante di Gesù, che, intervenendo nella storia, ha allargato il messaggio divino a tutti. E ricordandoci che lo Spirito di Dio è con noi quotidianamente, agisce in noi direi maternamente come suggerisce la sua etimologia ebraica al femminile: ruah.
Non a caso Johann Sebastian Bach, cantore della Riforma, siglava le sue composizioni musicali all’insegna del Soli Deo Gloria. Intuiamo infatti che certi risultati umani, eccezionali come quelli delle bachiane Passione secondo Giovanni e Passione  secondo Matteo, ma anche assolutamente più quotidiani quali sono quelli che sperimentiamo noi credenti quando siamo chiamati a fare piccole e grandi scelte, non possono attuarsi se non con l’aiuto di Dio. Che agisce dentro di noi e che ci illumina la via.
Tutto quello che riusciamo a realizzare non è per noi. È per la sua gloria

Introduzione
Il centro della predicazione di Gesù è indubbiamente l’avvento del Regno dei cieli, la signoria di Dio ma quale il nucleo della sua attività? Egli ha compiuto diverse azioni simboliche: la comunione della mensa con i peccatori e pubblicani, l’invio in missione , la purificazione del tempio, l’ultima cena; sono stati però i miracoli a sconcertare, a provocare interrogativi profondi tra i quali non poteva non spiccare il: “Chi è costui?” . Come possiamo oggi valutare i miracoli? Dall’illuminismo in avanti si sono proposte molte ipotesi a testimonianza del fatto che l’uomo moderno e quello contemporaneo difficilmente possono accettare tout court una lettura che non si discosti dalla lettera. Quindi cosa rimane? Il mito? La fantasia? La redazione lontana dagli eventi e dai fatti? La favola? Sono ipotesi sufficienti a spiegare le azioni di chi ha diviso in due la storia e che è stato addirittura identificato con Dio stesso? Affronteremo un percorso che , attraverso le diverse ipotesi volte a spiegare l’irruzione del “totalmente altro” nel mondo, approda ad una delle spiegazioni più profonde ed attuali del miracoloso in Gesù. Si intende infatti presentare il frutto di quanto Gerd Theissen, -teologo evangelico tedesco, professore di Nuovo Testamento all’università di Heidelberg, specializzato in studi sul cristianesimo delle origini- ha considerato, ricorrendo a tutti gli strumenti dell’accademico: ricerca storica, sociologica, esegetica, teologica. Le conclusioni cui approda Theissen possono anche sconvolgere visioni consolidate dei miracoli di Gesù passate ormai dell’immaginario collettivo; ciò non impedisce all’autore di mantenere uno sguardo che , non rinunciando alla ragione ed alle scienze positive, rimane aperto al trascendentale, facendoci percepire un Gesù senza dubbio più umano ma -nel contempo- non meno inquietante, lasciando risuonare anche oggi la domanda: “Chi è costui?”.
La discussione sui miracoli di Gesù è divisibile in fasi, che si sono succedute dal XVIII ad oggi, vediamole brevemente.

Le fasi della discussione sui miracoli

L’interpretazione razionalistica
Non abbiamo nei miracoli un’ interruzione delle leggi di natura. Si tratta di trasposizioni nel miracoloso di fatti ordinari. Ad esempio: Gesù che cammina sulle acque ha in realtà poggiato i piedi su pezzi di legno galleggianti. Possiamo fare riferimento al teologo di Heidelberg Paulus (1761-1851) che in una forma più matura, descrive ad esempio la moltiplicazione dei pani come una semplice condivisione con i più poveri. Non viene meno il messaggio che viene veicolato dal gesto, al quale si toglie l’aspetto soprannaturale.

L’interpretazione mitica
In Strauss (1808-1874) si inizia la negoziazione sulla storicità dei miracoli. Ovvero non negati nella loro storicità (qualcosa è successo!) ma visti come rispondenti alle attese del popolo, portato a credere ai miracoli. Composizione quindi poetica, volta a dare un senso -ad esempio- alle guarigioni, viste in senso psicosomatico. Si esprime attraverso il racconto mitico un’idea che parte dall’Antico Testamento, quella messianica.

L’interpretazione storico-formale e storico-religiosa
E’ questo il nuovo approccio che si fa largo all’inizio del XX secolo. Bultmann vede l’influenza del mondo ellenistico nei racconti di miracolo. Dibelius li illustra come novelle. Bieler vede Gesù corrispondere al modello antico dell’uomo divino, un taumaturgo ben delineato . In sostanza abbiamo che i miracoli vengono “marginalizzati” : si tratta di racconti che sono serviti a dare espressione all’annuncio, al kerygma.

La relativizzazione storico-redazionale
I miracoli sono racconti che ogni evangelista, traendoli dalla tradizione ha relativizzato criticamente in funzione del loro messaggio: Marco ritiene che i miracoli si comprendano solo a partire dalla croce (ecco il segreto messianico che assume valore); Matteo vedrebbe un “Messia dell’azione” che nel rispetto dei canti del servo di Isaia assume le malattie e le guarisce; Luca li interpreta in senso storico-salvifico, racconti del successo e della volontà benefica di Dio; Giovanni li vede come segni che rimandano al vero miracolo, Gesù stesso portatore della vera vita.

Gesù taumaturgo
Si inquadra Gesù in una figura di taumaturgo carismatico, presente in ambiente giudaico, oppure in in un modello che si accosta a quello del mago in un mondo dove la magia era una sfera presente e reale. Un esorcista-guaritore quindi, che agisce in virtù della propria spiccata personalità.

L’analisi di Theissen
Il suo punto di partenza è che il cristianesimo primitivo coincideva con un periodo di grande fede nei miracoli, comune al mondo antico. Ecco che diviene necessario distinguere i miracoli in sei tipologie. Non accettando una comune chiave di lettura, Theissen riesce in base al confronto con il miracoloso nella letteratura dell’epoca, in base alla plausibilità , in base al contesto storico ed all’ambiente che ha generato i racconti, a fornire un approfondimento convincente. Si possono quindi dividere i miracoli in due macrogruppi: quelli che costituiscono riflessi del Gesù storico e quelli che presuppongono la fede pasquale. Sinteticamente:

Riflessi del Gesù storico: esorcismi, terapie, miracoli rapporti a norme
Fede pasquale presupposta: miracoli di salvazione, miracoli come dono gratuito, Epifanie

Nel primo gruppo possiamo considerare un’origine nel Gesù storico, Lui stesso li ha compiuti, per respingere l’accusa di essere alleato del diavolo (esorcismi e terapie), per il rimprovero di violare il sabato (norme). Nel secondo gruppo abbiamo la descrizione di capacità che vanno oltre il limite umano: i ricordi di eventi storici (viaggi sul lago, elargizioni di cibo) sono fusi in racconti che evidenziano la rivelazione di un essere soprannaturale, possibili alla luce di quanto vissuto dalla comunità e dai singoli dopo la Pasqua. Si parte quindi, sempre, da un nucleo storico, i miracoli avevano reso “famoso” Gesù, secondo le testimonianze di Giuseppe Flavio (storico ebreo del primo secolo che, come denunciato dal nome ebraico-romano, era passato dalla causa ebraica ad abbracciare quella imperiale). Se le guarigioni potevano essere capaci di diffondere il suo nome, nel secondo gruppo di miracoli v’era l’irruzione della luce pasquale a gettare il segno del divino su racconti quali la trasfigurazione (Mc 9,2 ss.) oppure la pesca miracolosa (Lc 5,1 ss).

 

Riflessioni conclusive
Sorge a questo punto la domanda : ma allora Gesù non ha compiuto nulla di “miracoloso”? Per rispondere si deve obbligatoriamente trascurare la Pasqua che (ancora una volta) pone di fronte all’uomo e alla donna la scelta. Se è risorto, se Dio è intervenuto, se prima era morto ed ora è vivo, poco importa se gli echi sono giunti a noi anche tramite una redazione miracolosa di nuclei storici.

Ignoriamo la Pasqua comunque e focalizziamoci sull’attività taumaturgica di Gesù: secondo Theissen si tratta di un genere letterario ampiamente documentato: sia gli evangelisti, nel materiale comune come in quello proprio, che la fonte Q (oggi persa, si tratta di una raccolta di detti di Gesù che si ipotizza abbia fornito materiale ai Vangeli di Matteo e Luca) ne trattano ampiamente. Gli esorcismi vengono nel tempo ad essere piuttosto negletti, a testimonianza del fatto che creavano forse qualche imbarazzo, avvalorando ulteriormente la storicità dei racconti di guarigione. L’originalità dei racconti inoltre risiede nella loro portata escatologica. Secondo l’autore abbiamo nel miracolo un tempo di salvezza, il segno che marca l’inizio del nuovo mondo: Gesù possedeva qualità “paranormali” che ha saputo unire al centro del suo messaggio.

Quindi le guarigioni sono miracoli oppure no? Basta la loro originalità rispetto al contesto storico e la loro documentazione a renderli elementi che spezzano le leggi di natura? Quali leggi di natura inoltre, quelle note anticamente? Quelle note oggi? Da queste domande che a mio avviso è opportuno lasciare alla riflessione di ciascuno, possiamo però trarre una conclusione che secondo me è decisiva: dal racconto di miracolo non nasce la fede. Il miracolo può essere o meno plausibile, può supportare la fede ma può anche metterla in crisi profonda: “Perché il Cristo ha guarito e sanato mentre la mia giovane amica è mancata per un tumore? Eppure io ho pregato!” . Rimane la fede che allora ancor più, ancor più di fronte al miracolo mancato è “Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” come diceva l’apostolo Paolo. Forse … forse, di fronte al grido di Gesù contro la sofferenza e il dolore, che si materializza nel miracolo, possiamo pensare che è lo stesso grido che risuona sulla croce: “Dio mio perchè mi hai abbandonato!”

Alessandro Serena

Bibliografia:
-Theissen G., Merz A., Il Gesù storico. Un manuale. Queriniana, Brescia 1999.
-Becker J., Paolo l’apostolo dei popoli. Queriniana, Brescia 1996
-La Bibbia TOB, Elledici Torino 2010.

 

«Dio ha così amato il mondo che ha dato il suo unico figlio perché tutti coloro che credono in lui non muoiano, ma abbiano vita eterna. Dio non ha mandato suo figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma per salvarlo attraverso di lui» (Giovanni 3, 16-17)
Parlare di fede, forse, può essere ambiguo e poco comprensibile, poiché spesso questo termine si utilizza per indicare manifestazioni di fanatismo religioso oppure per esprimere varie forme di superstizione; inoltre la nostra è una società fortemente secolarizzata e, dunque, la «fede in Dio» interessa poco, semmai appartiene alla dimensione privata dell’individuo. Senza dubbio non si può ridurre il Dio dei Cristiani a una spiegazione razionale e i dogmi della chiesa, a partire dalla Trinità, appaiono talora complicati e oscuri per chi è alieno dal linguaggio filosofico e teologico. Al contrario, l’uomo Gesù continua ad affascinare perché offre qualche certezza storica, almeno in alcuni dati fondamentali e, soprattutto, per il messaggio trasmessoci, che rimane attuale.

Tuttavia l’etica dell’ebreo Gesù, per quanto rivoluzionaria ed anticonformista, non rappresenta in toto il suo messaggio di salvezza, perché avere fede non significa esclusivamente sforzarsi di seguire i suoi insegnamenti morali (per quanto ciò sia già un ottimo proposito, valido per tutti, atei e credenti); piuttosto – ancora prima di agire – significa, illuminati dalla Grazia divina, affidarsi per intero alla «buona notizia» ed essere sicuri che quell’oscuro figlio di un falegname, probabilmente falegname anche lui nei primi trent’anni della sua vita, è morto in croce per la liberazione degli esseri umani dal male, per iniziare il nuovo regno, per riconciliare noi – umanità corrotta e incapace di essere davvero giusta e onesta, incapace di amare il prossimo senza riserve o autocompiacimenti – con l’Eterno. La fede diventa allora il fondamento delle nostre azioni, perché da sole non basterebbero a renderci uomini e donne completi, nel senso biblico dell’espressione, giacché «Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27): e come potremmo essere a immagine del nostro Signore, se non specchiandoci nella sua immagine proprio attraverso la fede in Cristo, intesa alla latina come la «fiducia» che nel suo sguardo d’amore ritroveremo l’integrità originale?

Lutero, con uno straordinario paradosso, dichiarava che l’essere umano in Cristo è simul iustus et peccator, «contemporaneamente giusto e peccatore», quasi a dire che la luce del bene ci viene anticipata grazie all’abbandono fiducioso in Dio. E, attraverso una seconda provocazione, diceva pecca fortiter, sed crede fortius, «pecca profondamente, ma credi più profondamente»: dunque la fede/fiducia è più forte del male giacché, se è accolta, ci orienta e dà un senso altro, una prospettiva diversa alle nostre vite.
«Soltanto la fede» perciò non esprime né la superstizione religiosa né le credenze miracolistiche, che rifiutiamo considerandole inutili e pericolose, ma è un atto di affidamento che non chiede dimostrazioni, è la scoperta dell’amore di Dio per ciascuno di noi. E tutto questo si fonda sull’ascolto della Parola biblica, sulla sua lenta meditazione, in un cammino di ricerca ininterrotto e promosso dal dubbio: il ragionamento umano non è in grado di comprendere fino in fondo e, quindi, di racchiudere in un sistema l’Eterno e l’evento della Croce e della Resurrezione, dato che lo Spirito di Dio è sovranamente libero. Come scrive Giovanni, «lo sprito soffia dove vuole e si sente la sua voce, ma non si sa da dove venga e dove vada» (Gv, 3, 8).

«Soltanto la fede» ci invita a sciogliere i cuori induriti per affidarci a Cristo, in cui solo possiamo trovare una vera dimensione di libertà perché sapere abbandonarsi all’amore, superando le sovrastrutture della ragione, ci permette poi di essere e di vivere nel mondo da persone davvero libere, che indirizzano le loro azioni senza vincoli, fuori dalle logiche del tornaconto: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10, 8).
«Soltanto la fede» fa risuonare l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che scriveva: «Non mi vergogno della buona notizia, […] poiché la giustizia di Dio è stata rivelata in essa da fede in fede» (Rom. 1, 16-17). La buona notizia, che noi siamo abituati a chiamare «Evangelo», ci è stata rivelata «di fede in fede» perché il giusto vivrà attraverso la fede e questa catena di fede/fiducia, trasmessa nei secoli, ci interpella ancora oggi – forse più di ieri, in quanto essa non è data per scontata, ma ci impone il confronto con una cultura e con un mondo in cui da un lato Dio (fortunatamente) non è più un obbligo e dall’altro assistiamo a devianti forme di fanatismo in nome di Dio.

Declinare oggi il Sola Gratia incontra una duplice criticità.
La prima è che nelle controversie teologiche, in atto almeno fino al secolo scorso, il tema della grazia è stato spesso frainteso, abusato e persino mistificato in funzione della sua interpretazione e della sua appropriazione come categoria distintiva di appartenenza.
La seconda è che l’avverbio «solo» ha un carattere di esclusività e di assolutezza che rende difficile abbinarlo a qualsiasi processo o evento in un contesto, come l’attuale, dove quasi ogni concetto è plurale, se non per definizione, almeno nell’ottica ecumenica che impone di condividere tradizioni diverse e approcci interpretativi talvolta divergenti.
Tuttavia l’interpretazione rivoluzionaria del concetto di grazia proposta da Lutero impone un tentativo di sua attualizzazione anche in un’epoca nella quale, almeno nella percezione comune, il tema della salvezza sembra aver perso gran parte della sua rilevanza oggettiva.

Nel Primo Testamento il termine ebraico hén (grazia) individua la benevolenza che Dio mostra verso l’essere umano e le scritture ebraiche raccontano che molti personaggi centrali della narrazione trovano grazia davanti al Signore: da Noè in Gen. 6, 8 a Mosè in Es. 33, 12.17, a Davide in II Sam. 15, 25. Ma l’atto di grazia più importante compiuto da Dio è l’aver stabilito un patto con Israele, mantenendolo nonostante le sue innumerevoli trasgressioni. In tutto il Primo Testamento affiora l’idea che il Signore sia un Dio che vuole salvare il Suo popolo e non distruggerlo: la grazia rappresenta appunto la Sua volontà di salvezza e il peccatore pentito può invocare con fiducia la Sua misericordia (Sl. 51, 1).
Anche nel Nuovo Testamento il termine ha mantenuto i significati di favore e benevolenza di Dio verso l’essere umano e la grazia espressa con il patto del Sinai viene confermata dall’alleanza tra Dio e l’uomo che si compie con la vicenda terrena di Cristo, cioè del Dio fattosi uomo, un’alleanza che non sostituisce l’antico patto con il popolo di Israele, bensì lo rinnova e lo affianca. La grazia si manifesta nell’intervento gratuito di Dio nella vita dell’essere umano e genera la sua risposta nella fede (At. 18, 27). La fede, a sua volta, introduce l’essere umano nella grazia, cioè in un rapporto di benevolenza e comunione con Dio (Rom. 5, 2), un rapporto in cui il peccato è perdonato. La grazia coincide con un perdono totale che rigenera: per questo è possibile affermare che il contrario del peccato non sia la virtù, bensì la grazia.
La grazia e la fede non sono realtà coincidenti, ma piuttosto complementari, poiché la grazia risiede esclusivamente nell’ambito di Dio, esplicitando un agire di Dio stesso che rivolge all’essere umano la Sua parola di salvezza, mentre la fede è sopratutto una questione antropologica, cioè una risposta dell’essere umano o, almeno, un interrogarsi consapevole su questo dono di Dio.

Il Sola Gratia della Riforma vuole sottolineare che il peccatore non può giustificarsi da solo, né coadiuvare in alcun modo Dio nell’opera della giustificazione, negando decisamente qualsiasi possibilità di compartecipazione dell’essere umano al processo della salvezza, che resta iniziativa e compimento esclusivi di Dio, in Gesù Cristo: prima di ogni risposta umana c’è il ricevimento della grazia, che viene accolta nella fede; prima delle opere umane c’è l’amore di Dio, che le precede; nell’evento della salvezza la risposta umana è conseguenza dell’iniziativa di Dio e si traduce in un’etica evangelicamente ispirata. La specificità del messaggio evangelico sottolineato dalla Riforma è proprio questo: l’intervento della grazia divina è decisivo, l’essere umano, con le sue capacità, la sua razionalità e le sue conoscenze, da solo, non può nulla.
Ma in una società nella quale vengono quotidianamente enfatizzate la prestazione e l’affermazione personali, dove l’essere umano vale più per ciò che appare che per ciò che è, il problema della salvezza interessa ancora, oppure il suo annuncio ha perso gran parte del suo significato? Benché oggi permanga ancora l’angoscia della morte, essa viene affiancata, addirittura superata, dalle angosce della vita, dalle nostre insicurezze, fragilità, paure e miserie quotidiane.

L’annuncio della salvezza non può non riguardare anche questi aspetti, una salvezza prima di tutto da noi stessi in quanto produttori delle nostre ossessioni, dei nostri vizi e dei nostri idoli, una salvezza che dia un senso a ciò che siamo e a ciò che facciamo, una salvezza gratuita che non si riduce al perdono delle colpe, ma che dia speranza alla nostra vita.
La grazia che ci salva rappresenta un messaggio controcorrente rispetto agli standard performativi che ogni giorno ci sono proposti mediaticamente, conferendo dignità a tutti, compresi coloro che si trovano ai margini di una società selettiva, gli ultimi, con i quali più di duemila anni fa si identificava Gesù Cristo.
«In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me». (Matteo 25, 40).

Dire «Solo Cristo» non significa giudicare o disprezzare la fede, la spiritualità, le credenze altrui. Significa solo dire che, per noi, Cristo è la via attraverso la quale Dio si rivela, e, di conseguenza, quella che intendiamo seguire. Una via, un percorso, non un concetto: lungo una via si cammina, ci si guarda avanti e indietro, ci si ferma o ci si accampa, si incontrano altri viandanti. Come ci ricorda il libro degli Atti, i primi cristiani erano chiamati «quelli della Via».

Cercare Dio solo in Gesù Cristo significa cercarlo nel confronto con un essere umano concreto, nato, vissuto e operante in un luogo e un’epoca storica precisa, morto di una morte atroce e vergognosa. In un mondo pieno più che mai di aspiranti maestri, sacerdoti e signori, per noi Gesù Cristo è l’unico Maestro, Sacerdote e Signore.
L’unico maestro: colui che per noi ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68), parole e azioni che ci mettono in questione, ci sconvolgono, ci fanno guardare con altri occhi le cose, le persone, i fatti della nostra vita.
L’unico sacerdote: il solo intermediario tra noi e Dio, che ha proclamato e attuato la fine del regime dei sacrifici e della distinzione tra sacro e profano. In Cristo non abbiamo più bisogno di luoghi santi, di professionisti del divino, di offerte sull’altare per placare l’ira di Dio o ingraziarcene i favori.
L’unico Signore: il condannato a morte, sconfitto e abbandonato da tutti, la cui autorità non si basa sul denaro, sulle armi, sulla parola seduttrice, il cui modo di agire mette in discussione tutti gli altri poteri. Il Crocifisso che, tre giorni dopo, è risorto. Con la sua risurrezione (caparra e speranza per ognuno di noi), Dio stesso ha annunciato che la morte e i poteri di questo mondo non hanno l’ultima parola.
Riconoscere il Solo Cristo significa relativizzare tutte le filosofie, le ideologie, le religioni, le potenze che aspirano alla nostra adesione e alla nostra obbedienza. Anche dopo la pretesa «fine delle ideologie» restiamo tentati di cercare la nostra sicurezza nell’abbandono acritico a qualche assoluto. Non ci sono solo i fondamentalismi religiosi: pensiamo ai nazionalismi, al razzismo, alla fiducia nella competizione, nella finanza o nel progresso scientifico.
Solo Cristo non è un integralismo contrapposto ad altri integralismi; è un criterio di libertà, soprattutto verso le idee, le cause, i modi di pensare che ci sono più vicini e congeniali. Il loro ruolo e valore è quello di strumenti per capire e cambiare la realtà, non di fini, di ideali da realizzare a ogni costo. Perché «tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo» (cfr. 1 Cor. 3, 22-23).

Avere Cristo come maestro non significa osservare il mondo dall’alto, con la sicumera di chi possiede la verità. Al contrario, significa imparare quello che Bonhoeffer chiama «lo sguardo dal basso»: guardare gli eventi dalla prospettiva «degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi». In Gesù Cristo ci viene rivelato non un Dio aggressivo e distruttore che rivaleggia con gli altri poteri per la conquista del mondo, ma un Dio sofferente e solidale con tutti e tutte noi, con tutti i dimenticati e gli sconosciuti, con tutta la creazione mai come oggi minacciata.
Il Solus Christus è un aiuto a orientarsi nell’incertezza di una società «liquida», priva di punti di riferimento, dove regnano il rischio, la precarietà, l’insicurezza, la disperazione. Nel Cristo crocifisso e risorto impariamo a vivere la nostra debolezza, senza lasciarci sballottare da «ogni vento di dottrina» (cfr. Ef 4, 14), né trincerarci in identità forti e assolute. Gesù ci libera dalla frenesia dell’attivismo (anche quello ecclesiastico) e dall’ossessione di salvare il mondo: al suo seguito c’è da lavorare, ma anche da pregare, da contemplare, da «stare in silenzio davanti al Signore e aspettarlo» (cfr. Sal 37, 7).
Gesù di Nazareth non è rimasto nella tomba, ma neanche cammina visibilmente su questa terra.
Crediamo che egli è presente tra noi, dovunque due o tre sono riuniti nel suo nome. Gesù ci ha lasciato la sua Parola da meditare, e il suo Spirito che ci aiuta a farla nostra. Ci ha lasciato il prossimo in cui cercare il suo volto, e sorelle e fratelli con cui ogni giorno costituire la chiesa che testimonia di lui.