Il 31 ottobre scorso il Circolo Riforma di Milano, coordinato dal pastore Giuseppe Platone, ha licenziato una serie di testi dedicati ai “cinque Sola” della Riforma:
Sola Scriptura
Solus Chritus
Sola Grazia
Sola Fide
Soli Deo Gloria
I testi intendono riaffermare l’attualità della Riforma protestante, perché aspiriamo a un ecumenismo fatto di diversità riconciliate, e non a uno stanco appiattimento in cui si passano sotto silenzio i temi troppo complicati. La rilettura di questi cinque antichi slogan pone, in tempi ecumenici, una questione: la Riforma è stata un bene solo per chi si dichiara protestante o anche per l’intera cristianità e la società moderna?.
Oggi cominciamo con la pubblicazione del primo testo, dedicato a “Sola Scriptura”. Gli altri seguiranno al ritmo di 2 a settimana.
Buona lettura e buona riflessione!

SOLA SCRIPTURA

La Riforma, mettendo al centro la Scrittura (intesa come raccolta degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento), ha voluto indicare la sorgente a cui quotidianamente i cristiani possono dissetare la loro sete di conoscenza di Dio. Ciò vale non solo per i protestanti ma per tutte le chiese cristiane – le quali oltretutto sono teologicamente cresciute negli ultimi decenni grazie anche al dialogo ecumenico. L’ecumenismo infatti ha trovato proprio nella Scrittura il terreno fertile d’incontro delle tre grandi famiglie confessionali. Attraverso lo sviluppo delle scienze bibliche, la contrapposizione tra Scrittura e Tradizione si è relativizzata. La Scrittura stessa è frutto di una tradizione orale che ha preceduto sia i testi scritti – i vari libri della Bibbia – sia l’ingresso, l’accoglimento a pieno titolo di questi stessi testi nella famiglia degli scritti canonici.
Anche il canone biblico rappresenta pur sempre una scelta umana, ancorché ispirata. Il canone non esaurisce la rivelazione di Dio. Da questa Scrittura (che di fatto è una biblioteca di libri diversi, sia come autori che come datazioni) si dipartono interpretazioni che, non di rado, appaiono opposte tra loro, proprio come i comportamenti morali che ne discendono. Sicché da un unico testo biblico si aprono vie che possono condurre a conseguenze ecclesiologiche differenziate, malgrado il riferimento alla stessa Scrittura. È stato così sia nel secolo della Riforma luterana, zwingliana, calvinista (si pensi, per fare un solo esempio storico, al dibattito conflittuale sulla Santa Cena), sia nei secoli successivi e oggi questa pluralità interpretativa perdura.

Anche nella grande famiglia evangelica è presente una spiccata diversificazione d’interpretazioni e posizioni teologiche conseguenti. Se allarghiamo lo sguardo alle altre chiese cristiane, notiamo come le diversità interpretative si accentuino: vedi la questione del concetto stesso di chiesa o il primato petrino o la successione apostolica, o il rapporto con il popolo d’Israele o la concezione del sacerdozio e dei ministeri o il ruolo delle donne nella chiesa…
Ma come leggiamo i testi biblici? Non da oggi assistiamo alla rivitalizzazione di un approccio biblicistico alla Parola di Dio, che riduce il principio del Sola Scriptura a «Unica Scriptura». Vale a dire che si tende ad affermare l’imposizione di un’unica interpretazione dello stesso testo biblico, nella pretesa che l’interpretazione data sia la sola vera e assoluta. Quasi che ogni versetto o pericope biblica racchiuda uno e un solo significato. E questo crea un terreno favorevole al fondamentalismo nelle sue varie espressioni. Mentre sappiamo – anche perché le scienze bibliche lo hanno da tempo dimostrato – che i testi biblici (e non solo quelli) racchiudono significati e scenari diversi, insieme a una ricca gamma di indicazioni che vanno scoperte scavando nella lettera scritta. Il testo biblico, insomma, va ricollocato e compreso, per quanto scientificamente possibile, nel contesto storico in cui venne pensato e formulato. Occorre tener in debito conto che il linguaggio è frutto della temperie culturale di un’epoca. I testi biblici, alla stregua di altri testi antichi, prima di essere messi per iscritto in un momento storico preciso, sono stati tramandati oralmente. Questo passaggio dall’orale allo scritto, come da una lingua a un’altra (per esempio la Traduzione dei LXX) ha logicamente comportato mutazioni che vanno individuate con metodi scientifici.

Sola Scriptura per noi significa sostanzialmente tre cose.
In primo luogo che Dio è sovranamente libero, e quindi può rivelarsi anche al di là della Scrittura stessa; ma di certo Dio si è rivelato in questa Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento.
In secondo luogo che la Scrittura da noi ricevuta deve confrontarsi non solo con il tempo in cui è stata pensata e ispirata, ma anche e soprattutto con il nostro tempo: è il presente di chi legge, infatti, il vero banco di prova della comprensione dello spirito del testo e non solo della lettera.
In terzo luogo che la Scrittura è per noi il principale nutrimento della nostra fede, del nostro pregare, della nostra spiritualità, del nostro essere chiesa.

Non siamo noi, chiese protestanti, i detentori esclusivi della Scrittura e di interpretazioni che vorremmo assolutizzare. La realtà è che noi, in qualche modo, siamo stati affascinati e «catturati» dal Sola Scriptura: un principio che ci guida e spinge a percorrere itinerari nuovi e inediti nella straordinaria scoperta di un continuo dialogo con Dio in Gesù Cristo. «Fermatevi sulle vie e guardate, domandate quali siano i sentieri antichi, dove sia la buona strada, e incamminatevi per essa; voi troverete riposo alle anime vostre!» (Geremia 6, 16).
L’emozione e la fiducia in Dio, che avvertiamo nel leggere la Scrittura, non ci impediscono dall’avvalerci di metodi di analisi critica dei testi. Qualunque metodo d’indagine – da quello esegetico-storico-critico a quello letterario, simbolico, psicoanalitico, narrativo – è al servizio di una sempre migliore comprensione del testo biblico e non viceversa. Ciò che realmente conta è che lo Spirito del Signore faccia rivivere per noi quella Parola antica che ci è stata trasmessa: una Parola che per Grazia di Dio, ogni giorno, dona a noi speranza, incoraggiamento, guarigione, redenzione, gioia riconoscente.
La Scrittura vive se lo Spirito del Signore la chiama alla vita e noi con lei. La chiesa nasce, cresce e si orienta nel suo procedere attraverso l’ascolto e la comprensione della Parola biblica.

La semplicità, credo sia questo il modo  attraverso il quale la Pasqua di Risurrezione ci parli da sempre. Generazioni di cristiani e non, esegeti, studiosi dei testi sacri e delle culture del bacino del Mediterraneo  si sono impegnati per spiegare il senso della Pasqua, come la Risurrezione sia avvenuta in realtà, se si è trattato della rianimazione di un corpo, di visioni oggettive o soggettive, di fenomeni estatici, di una semplice truffa ordita da seguaci delusi o di cos’altro.

Sappiamo che il Signore, Dio nascosto, si rivela nella miseria, negli ultimi, nella debolezza, nell’infamia. Quanto celebriamo oggi, il Venerdì Santo, rappresenta il fondo , il pozzo nero del divino e dell’umano, Dio che fa una fine da schiavo, la croce: il “servile supplicium” che secondo lo storico romano Tacito non doveva nemmeno figurare sulla bocca del cittadino romano dabbene. Guardando alla croce possiamo intuire, solo intuire qualcosa dello scandalo del male, del silenzio di Dio in quel momento, di dove sia Dio di fronte ai drammi della storia e dell’uomo: è sulla croce.

Eli Wiesel ne “La notte” descrive il male assoluto, quello di fronte al quale la mente urla : un bambino messo a morte per impiccagione   in un  campo di concentramento. Ecco quanto terribilmente scrive: “E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. … “Dietro di me udii il solito uomo domandare: – Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… .” 

Oggi, proprio oggi, non possiamo e non vogliamo dimenticare che nell’osservare Gesù osserviamo, ricordiamo, chi ieri e oggi è crocifisso. Basta aprire un giornale. I bimbi vittime di violenze, le stragi di profughi nel Mediterraneo, la Siria, le bombe in guerra e  nelle chiese in Egitto o nelle strade, le condanne a morte   (solo in uno stato degli USA si eseguiranno otto condanne a morte in 11 giorni). Non basta ricordare. I discepoli osservano da lontano, solo le donne hanno il coraggio di essere lì. Noi cosa facciamo ? A che distanza stiamo da quella croce?  E pare che il mondo non si interroghi su questo. Non più di tanto. Alla radio ed in televisione si susseguono i dibattiti sul politico di turno che mangia o meno l’agnello per Pasqua:  chi rispetta la tradizione e chi è animalista … . Che miseria. Di questo vogliamo parlare per Pasqua?

Direi di no. La Pasqua, che passa attraverso il Venerdì Santo, è altro, è il Totalmente Altro. Che sovverte le regole del mondo, che ci mostra che  quel Condannato è il  Signore della vita. Avviene in maniera semplice dicevamo, con la risposta alla morte che può essere solo divina: la sua sconfitta, la vita! Non sono necessari sofismi, non occorre accedere ad una verità mistica o raggiungere un grado di illuminazione recondito. Basta guardare al Risorto. La fede, la fiducia, può essere quella di un bambino, comprensibile a chiunque, perché si basa sulla semplicità: Chi era morto, ora è vivo! Il Vangelo di Giovanni, in un solo versetto riesce a fornirci il nocciolo, il nucleo del senso della Pasqua: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna.” (Gv 3,16) . 

Non c’è altro, è questa la Pasqua.

Non c’è vita che nasca senza essere un progetto di Dio per l’eternità, se glielo si consente; non si nasce a questo mondo, si nasce alla Vita e all’amore di Dio che è infinito, che non ha tempo, che non ha limiti.

Ieri mi interrogavo su come spiegare la Pasqua a dei bambini. Non è stato difficile. Un bruco che osservando il bozzolo vuoto lasciato da un altro bruco, può pensare che quello sia il destino dei bruchi ma può anche volgere lo sguardo in alto e osservare una meravigliosa farfalla, che è diversa ma è la stessa di prima, che è nata da quel bozzolo ma che ora vede altro. Ecco la Pasqua: Gesù Cristo che è stato resuscitato da Dio, ci indica che siamo  farfalle.

“Io sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.” (Gv 10,10)

Alessandro Serena

 

Premessa

Nella tradizione ebraica i testi che seguono la Torah sono definiti i “Profeti”, distinguibili in
Profeti anteriori e posteriori. Se per i Profeti posteriori o profeti scrittori è più facilmente
individuabile la ragione che li vede definire tali, meno lo è per gli anteriori. Nella
composizione delle Bibbie cristiane, che seguono le divisioni della Settanta, i Profeti anteriori
sono infatti definiti libri “storici” (aggiungendovi altro testi: Rut, Cronache 1/2, Esdra,
Neemia, Ester). Nella Bibbia ebraica quindi abbiamo Giosuè, Giudici, Samuele 1/2 e Re 1/2,
inseriti secondo il canone nel libro dei profeti poiché i loro autori -secondo la tradizione-
Giosuè , Samuele e Geremia, erano ritenuti tali. Occorre guardare all’inserimento dei libri
dei profeti secondo la tradizione ebraica per cogliere uno dei sensi più importanti della Bibbia
ebraica; definita anche Tanak, acronimo di Torah, Nebiim, Ketubiim (Pentateuco, Profeti e
Scritti) pone al primo posto la Torah come caposaldo, che in quanto raccolta dei testi
fondanti di Israele, in una sorta di scala discendente precede Profeti e Scritti. Diversamente
la tradizione cristiana porrà i Profeti al termine del proprio canone del Primo Testamento, in
una successione ascendente che li pone al culmine, in quanto annunciatori della venuta del
Cristo.
Altra chiave di lettura nella disposizione dei testi all’interno del canone ebraico è che se con la
Torah vediamo Dio che parla ma soprattutto agisce, nei Profeti assistiamo a Dio che parla
mentre negli Scritti rileviamo la risposta del popolo di Israele. I libri dei Profeti anteriori sono
caratterizzati da una teologia deuteronomistica ed in questo in relazione col Pentateuco.

Il giovane Samuele chiamato da Dio (M. Chagall)

Israele da Mosè a Samuele
Giosuè compare (Giosuè 1,1-9) come successore di Mosè ma non gli viene parificato.
Saranno frequenti i rimandi a Mosè nella tradizione profetica, consentendo in tal modo di
evidenziare di volta in volta lo spessore del profeta in questione richiamandosi alla figura
eminente di Mosè, senza però mai perdere di vista come questi non sia comparabile: l’amico
di Dio, colui con cui Dio parlava “faccia a faccia” (Es. 33,11) rimane elemento unico e
fondante. Giosuè ha il titolo di “servo di Mosè” non di “servo di Dio” (ebed Yhwh) come il
suo predecessore, egli è l’esecutore della Torah data da Mosè, il suo compito è portare a
termine la conquista della terra di Canaan e ripartirla tra le tribù di Israele, garantendo la
fedeltà a Dio, servendolo. Il compito viene espletato, la generazione di Giosuè si attiene alla
promessa fatta. Ecco che nel periodo di Giosuè abbiamo la definizione di un’epoca ideale,
simile a quella di Mosè. Un cambiamento di direzione netto è quello descritto dal libro dei
Giudici, la generazione successiva “non conosceva più il Signore, né le opere che Egli aveva
compiute in favore di Israele” (Giud. 2,10), originando l’adorazione degli idoli di Baal: di qui
il rinnegamento di Yhwh che si dispiegherà nei testi successivi. La collera divina si tradurrà
nel libro dei Giudici nella periodica oppressione da parte di popoli ostili e nella conseguente
comparsa dei giudici: reggitori, salvatori inviati da Dio. Di essi sono raccontati i successi
militari; tra loro una donna, Debora, profetessa e giudice; spicca Gedeone che resiste al culto
di Baal e che rifiuta una signoria ereditaria su Israele: un’istanza critica contro la monarchia.

Il libro presenta in maniera paradigmatica l’infedeltà di Israele ed il soccorso di Dio. Un
periodo di disordine, il libro dei Giudici lo esprime palesemente al termine: “Ognuno faceva
quello che gli pareva meglio” (Giud. 21,25). Si profila poi il periodo successivo, quello della
monarchia: un nuovo inizio, ecco comparire Samuele.  Profeta ma descritto anche come
giudice, a lui gli anziani chiedono un re ed egli acconsente su incarico divino, sebbene spicchi
l’avvertimento che il desidero significhi non avere più Dio a capo di Israele, evidenziando gli
aspetti negativi della monarchia (1 Sam 8,9-18). In due diversi racconti si procede con la
nomina a re di Saul, unto da Samuele oppure insediato dopo una vittoria militare. La
tensione tra la signoria di Dio e gli interessi politico-militari della monarchia emergono
immediatamente; Samuele è il rappresentante della sovranità di Yhwh, della sua unicità
radicata nel culto e Dio si pente di avere stabilito Saul, “cerca un altro uomo” (1 Sam 13,14).
Come Dio riniziò dopo il diluvio, garantendo la sopravvivenza dell’umanità, analogamente
ricomincia garantendo la durata della dinastia al successore: Davide (2 Sam 7,12); Samuele
inizia una nuova era nella storia di Israele.

Israele tra re e profeti
Samuele unge Davide, (1 Sam 16,13) e di conseguenza lo Spirito di Dio lo investe: il lettore
realizza che il futuro appartiene a Davide. La preferenza di Dio è evidente, la crescita di
Davide è rapida, come capobanda prima, con la morte di Saul in battaglia contro i filistei,
con la profezia della profetessa Abigail, con il maggior peso di Giuda come nuovo centro di
potere politico, con la promessa della stabilità. Unto poi re di Giuda (2 Sam 2,4) evidenzia la
sua azione e indipendenza politica: conquista Gerusalemme che diviene città di Davide,
indipendente dalle tribù israelitiche; vi trasferisce l’arca di Dio, facendone il centro religioso
del regno. Compare il profeta Natan, profeta di corte che connota l’ambivalenza della
monarchia davidica. La “promessa di Natan” in 2 Sam 7,16 fonda la dinastia di Davide, le
conferisce durata (ad olam : per sempre) e definisce il periodo della benedizione (2 Sam 2-7);
l’adulterio con Bath-Sceba e l’omicidio del marito caratterizzano il periodo sotto il segno della
maledizione (2 Sam 9-24). Fondamentale come nonostante la peccaminosità di Davide, gli
intrighi e gli scandali, la promessa di Dio non venga revocata, attraverso Natan verrà
mantenuta. E’ sempre Natan che riesce a fare insediare come sovrano Salomone (figlio di
Davide e Bath-Sceba) ma è Davide che raccomanda a Salomone l’osservanza della Torah (1
Re 2,1-4) é un colpo di scena! Dal tempo di Giosuè non era più nominata e sarà la sua
osservanza che potrà consentire a Salomone di mantenere il suo potere. Egli inizia il suo
regno con un pluriomicidio politico ma sarà la Sapienza a contraddistinguerlo. Dio gli ha
accordato un cuore intelligente, sarà inoltre un giudice saggio e non convenzionale; edificherà
il tempio ed il palazzo reale.
Il capitolo 8 del primo libro dei Re mostra un chiaro riferimento all teologia
deuteronomistica: come sul Sinai la gloria (kabod) di Yhwh riempie il tempio, è quindi
connesso al Sinai (valorizzazione della centralizzazione del culto); non vi è Dio al pari di
Yhwh; egli osserva il patto e la misericordia verso chi cammina con il cuore verso di lui;
inoltre i cieli non lo possono contenere, nemmeno il Tempio, che è comunque il luogo dove
abita il suo nome: gli uomini saranno ascoltati da Dio -che è nei cieli- quando pregheranno
rivolti verso il Tempio, anche se lontani , anche in esilio.
Anche il regno di Salomone è sotto il segno dell’ambivalenza: tramite due visioni oniriche si
evidenziano gli aspetti positivi, la saggezza, l’edificazione del tempio, ma anche l’annuncio di
sventura: il tempio sarà distrutto, il popolo sarà deportato. Ambivalenza che non rende
comunque simili le figure di Davide e Salomone. Nel libro dei Re Davide rimane esempio di
sovrano fedele a Yhwh, mentre appare un giudizio negativo su Salomone in quanto
inadempiente verso la Torah di Mosè a causa del culto di divinità straniere , fatto alla base
della successiva divisione del regno secondo il punto di vista deuteronomistico. Davide quindi
come figura esemplare di re, l’unico che ha garantito l’integrità del regno.

Israele e Giuda tra re e profeti
Sarà proprio l’adorazione di divinità straniere che farà rivolgere al profeta Aiia di Silo la
parola divina che motiverà Geroboamo a sollevarsi contro Salomone e divenire successore di
Davide su 10 tribù (1 Re 11,29-40). L’autonomia politica del Nord si trasforma anche in
autonomia cultuale, saranno fondati in due santuari di Betel e Dan, alternativi a
Gerusalemme, imprese che “attirano su di lei la distruzione e lo sterminio” (1 Re 13,34): guida
sempre la teologia deuteronomistica. Nei secoli successivi assisteremo alla guerra tra i due
regni di Israele e di Giuda ed il secondo, meno potente, sarà in una situazione di velato
vassallaggio verso il primo. Nonostante questa dipendenza politica saranno due gli elementi
fondamentali per la storia che permetteranno a Giuda di possedere spiccata autonomia: il
tempio e la dinastia davidica, premesse essenziali per la futura sopravvivenza del popolo di
Israele anche dopo la sua perdita di autonomia. I sovrani del regno del Nord sono visti in
maniera negativa, analogamente al periodo dei giudici. L’adorazione di divinità straniere
sarà origine di una costante denuncia, in particolare spicca la storia di Acab, della dinastia di
Omri, sovrano che erige in Samaria un tempio a Baal e sposa la principessa fenicia Izebel.
Ecco che , come sempre nei momenti di crisi, appare una figura profetica: Elia che incontra
Dio -analogamente a Mosè- sul monte Oreb (1 Re 19,9); acme del racconto la configurazione
del “resto d’Israele” (1 Re 19,18), un residuo di persone che rimane fedele, con cui la storia
procederà. Elia si scontra col sovrano -nell’episodio della vigna di Nabot emergono ancora
l’ingiustizia del re e la sovranità di Dio sulla terra- ed infine Elia annuncia la fine della sua
casata (1 Re 21,21). Sarà un altro profeta, Micaia figlio di Imla che, diversamente dai profeti
di corte, annuncerà la sconfitta in guerra e la fine del re: si pone il tema della vera e falsa
profezia; quella vera si realizza. Eliseo, discepolo e successore di Elia, traghetterà il regno
verso un’altra dinastia, ponendo fine a quella di Omri/Acab, eseguendo così il compito
affidatogli da Elia.
Di Giuda non è espresso un giudizio altrettanto negativo rispetto a quello sul regno di Israele,
mancando i peccati di Geroboamo, sebbene gli “alti luoghi” come santuari alternativi a
Gerusalemme non manchino nemmeno qui. Ciò che costituisce elemento differenziante è la
promessa fatta da Dio per amore di Davide che “aveva fatto ciò che è giusto agli occhi del
Signore” (1 Re 15,5). Sarà con il re di Giuda Ezechia che si assisterà ad una grande riforma
del culto (2 Re 18,1-6), sullo sfondo della minaccia assira (nel 722 a.C. cade Samaria) e
dell’attività profetica di Isaia, che gli annuncerà la futura deportazione di Giuda a Babilonia
(che avverrà in due fasi nel 597 e 586 a.C.) . Avremo poi l’ulteriore riforma del re Giosia,
(seguente la controriforma di Manasse) il quale -mutuando gli stessi vocaboli espressi in Deut.
17,20- “camminò in tutto e per tutto per la via di Davide suo padre, senza scostarsene né a
destra, né a sinistra” (2 Re 22,2). La riforma sarà avviata dal ritrovamento, durante i lavori di
rifacimento del tempio, di un libro che potrebbe essere una versione più antica del libro del
Deuteronomio. La riforma è radicale: la soppressione dei culti stranieri, la centralizzazione
del culto a Gerusalemme, la distruzione degli altri luoghi di culto , in particolare di quello di
Betel. Giosia viene elevato sopra tutti gli altri re prima e dopo di lui ma muore in battaglia ed
all’orizzonte si staglia il nemico babilonese. L’infedeltà di Israele (comune alla monarchia, con
eccezione del soli re Ezechia e Giosia) sarebbe stata punita, Dio aveva promesso una
permanenza durevole se fosse stato messo in pratica quanto Egli aveva raccomandato, ma
non era avvenuto, Manasse ne era stato l’ultima riprova. La distruzione di Gerusalemme, le
deportazioni vengono descritte senza commenti ormai .

Conclusioni
Nonostante l’epilogo la storia dei profeti anteriori non è un racconto di fallimento. Vengono
poste le basi necessarie per la vita di Israele, anche nell’epoca successiva all’esilio babilonese,
che terminerà con l’editto di Ciro del 538 a.C. . Ai due doni già espressi nel Pentateuco (la
Torah stessa e la terra) troviamo qui altri due aspetti fondamentali: la monarchia ed il
tempio. La condanna degli dei stranieri emerge con forza, la loro adorazione, l’infedeltà ,
spiegano la divisione e le successive tragedie in cui incorreranno i regni di Israele e di
Giuda. Su tutto, il ruolo dei profeti che sono intervenuti nei momenti di crisi, che hanno
accompagnato la monarchia contro le tendenze politeistiche, avvertendo costantemente
Israele e Giuda nella necessità di convertirsi . I profeti sono i servi (ebed) di Yhwh, titolo di
Mosè stesso e testimoni del fatto che la monarchia ha governato in difformità dai
comandamenti di Dio, testimoni inoltre che quindi si sarebbe potuto fare altro, in conformità
al volere divino, vi è quindi un’altra strada … .

Alessandro Serena

Bibliografia:

-Rendtorff R., Teologia dell’Antico Testamento Vol.1, Claudiana Torino 2001.
-Rendtorff R., Teologia dell’Antico Testamento Vol.2, Claudiana Torino 2003.
-La Bibbia TOB, Elledici Torino 2010

I sacramenti

Opportuno prima di entrare nel tema del battesimo, affrontare l’argomento del sacramento in generale. Il termine latino “sacramentum” che ci viene dalla vulgata di Girolamo, traduce l’originale greco “mysterion”, che non intende tuttavia indicare i gesti simbolici della Chiesa come li conosciamo. Nel Nuovo Testamento descrive infatti altre situazioni: il destino di Israele, il rapporto tra Cristo e la Chiesa, il regno di Dio. I termine non è mai associato al battesimo ed alla Cena del Signore (1).
E’ a partire da Agostino che assistiamo ad una teologia sacramentale. Per il vescovo di Ippona i sacramenti sono “segni visibili di una grazia invisibile” , il sacramento è quindi l’evento costituito da un elemento che riceve significato in quanto associato alla parola di Dio (2). Nella definizione del catechismo di Heidelberg alla domanda: ”Che cosa sono i sacramenti?” leggiamo nella risposta “Sono santi segni e suggelli visibili, istituiti da Dio…”(3). In quanto segni rimandano quindi a qualcosa di più grande, in quanto suggello confermano un patto, una promessa. Se da un lato quindi ci richiamano alla morte e resurrezione di Gesù, nel cui nome siamo battezzati, dall’altro confermano la promessa del perdono dei peccati e la vita eterna (4). Il sacramento è considerato un mezzo di grazia.
La teologia agostiniana verrà poi interpretata in maniera non uniforme: grazia presente in maniera reale, per altri in maniera simbolica: indicata e non contenuta nel sacramento. A fronte del pericolo di un automatismo della dimensione sacramentale (nella Cena abbiamo una realtà sostanziale per il cattolicesimo) la Riforma reagirà collegando strettamente il sacramento e la predicazione della parola. Il sacramento quindi come verbum visibile, che in quanto tale è quindi lontano da una mera comunicazione di concetti, poiché la parola è sempre irruzione di Dio nella storia. Anche all’interno del protestantesimo avremmo però rilevato ben presto posizioni difformi. Se Lutero afferma una presenza reale ma con l’accento sul rapporto con la predicazione, Zwingli parlerà di presenza simbolica mentre Calvino, più sfumato rispetto a Lutero pone enfasi sul ruolo dello Spirito. Diversità circoscritte da un’unica intenzione evangelica: impedire un materialismo della grazia, che potrebbe assumere i tratti della superstizione.
Il numero dei sacramenti è oggetto di dissenso. Battesimo e Cena del Signore, in quanto riferiti alla volontà di Cristo e posti su un piano particolare , secondo il Nuovo Testamento, sono gli unici riconosciuti in ambito protestante mentre da parte cattolica si ritengono essere sette i sacramenti: oltre ai due citati la confermazione, la penitenza, il matrimonio, l’unzione degli infermi, l’ordine.
Il battesimo
Gesù non ha mai battezzato. Nemmeno nella parte in cui il vangelo di Giovanni vi fa riferimento (Gv 3,22-23), possiamo trovare un indizio storicamente attendibile, risalendo probabilmente quelle pagine alla polemica dell’estensore del quarto Vangelo nei confronti dei seguaci del Battista. In Matteo è il Gesù risorto che dà il mandato nel nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo (Mt 28,19), in una formula trinitaria che è indubbiamente frutto della chiesa primitiva.
Nel Nuovo Testamento e nella chiesa dei primi secoli è evidente che il battesimo è compreso come rito penitenziale che segna l’ingresso nella comunità (5). Il catecumeno, dopo un percorso di formazione, muore alla vita vecchia, si riveste di Cristo rinascendo nella comunità cristiana. E’ quindi veicolo di grazia ma anche risposta consapevole del credente. Sarà nei secoli successivi che il battesimo subirà una trasformazione. Successivamente all’editto di Milano di Costantino nel 313 il cristianesimo diverrà religione dell’impero, essere cristiani sarà poi costitutivo dell’essere inseriti nella società del tempo. Di conseguenza prima avviene meglio è. Un primo aspetto sociologico porterà quindi al pedobattismo che si affermerà dal IV secolo in avanti. Una seconda ragione è teologica ed è legata alla dottrina agostiniana del peccato originale. Un peccato che macchia l’intera umanità e che si trasmette ad ognuno per via ereditaria a partire dalla caduta descritta in Genesi 3. Ecco che il battesimo lava questo peccato originale, lavacro inteso come capace di eliminare la conseguenza peggiore del peccato originale, ovvero la lontananza da Dio.
Un pratica, quella del battesimo dei bambini che non poteva, per la sua distanza dalle testimonianze della Scrittura non essere sottoposta a vaglio da parte della Riforma. Sebbene Lutero e Calvino non avessero inteso contestare tale prassi sarà il movimento anabattista (ribattezzatori, come vennero definiti in tono dispregiativo), a prevedere il battesimo dei credenti. Teologicamente la reazione dei riformatori si basava sul fatto che la grazia, essendo libera, non necessitasse della risposta del credente per agire, oltre al fatto che il battesimo dei fanciulli non è vietato dal Nuovo Testamento e che esso rappresenterebbe inoltre un segno del patto , nello spirito della circoncisione dell’Antico Testamento. La risposta anabattista sarà diretta: la grazia è indipendente dal battesimo, il battesimo non esplicitamente vietato è un argomento privo di senso, comunque il battesimo dei bambini non è menzionato nel Nuovo Testamento, come non lo è il concetto di “nuova circoncisione”. Dopo il fallimento di un approccio violento e del regno anabattista a Muenster, duramente represso nel 1535, fu il movimento mennonita (da Menno Simmons, ex sacerdote cattolico) a propugnare gli ideali del battesimo dei credenti. Le chiese battiste, nate nel ‘600 in Inghilterra, appartenenti a quei risvegli che animarono il mondo evangelico nei due secoli successivi, non collegate col movimento anabattista che le aveva precedute, tennero successivamente alto il vessillo del battesimo dei credenti.
Tema questo che si presenta con forza oggi in seno al mondo protestante. Si rileva infatti che se nell’ortodossia e nel cattolicesimo il pedobattismo è una realtà omogenea e condivisa, nell’evangelismo si presentano chiese di orientamento pedobattista -quali quelle luterane, riformate, metodiste, anglicane- e chiese di orientamento battista: mennonite, battiste, avventiste, pentecostali. Anche teologicamente vi sono differenze. Nel cattolicesimo il battesimo dei fanciulli è necessario per via del peccato originale e rappresenta il viatico per divenire membri della Chiesa, liberi dal peccato e rigenerati come figli di Dio. Nelle Chiese luterane, riformate, metodiste si vede nel battesimo una forma della parola di Dio, una modalità dell’annuncio della parola. Il battesimo esprime dunque il dono della grazia di Dio ed il suo accoglimento nella fede (6). Nelle Chiese battiste il battesimo presuppone la confessione di fede e viene amministrato solo ai credenti; non è quindi corretto parlare di battesimo degli adulti in quanto non è l’età la condizione determinante: lo sono la consapevolezza della scelta e la determinazione di vivere alla sequela di Gesù.
Ecco che assistiamo a un “paradosso protestante”. Per quanto concerne il battesimo vi è comunione tra chiesa cattolica, ortodossa e chiese protestanti pedobattiste e non vi è tra le stesse riguardo la Cena del Signore; abbiamo invece comunione tra chiese protestanti pedobattiste e battiste sul tema Cena e non su quello del battesimo. E’ il protestantesimo che deve urgentemente chiarirsi le idee (7). In Italia un passo importante venne compiuto nel 1990 con il reciproco riconoscimento tra le Chiese valdesi e metodiste e l’unione cristiana evangelica battista in Italia (UCEBI). Sul punto cruciale le posizioni restano diverse ma tali diversità non vengono ritenute tali da impedire la comunione ecclesiale. Se l’accordo quindi origina da una ferma volontà ecumenica delle Chiese coinvolte, non supera i problemi teologici. Sarebbero i “frutti del battesimo” a rendere evidente alla comunità battista se un possibile membro, già battezzato nell’infanzia necessiti o meno nuovamente del battesimo. Si presentano due problemi: uno di ordine pratico, come riconoscere i frutti; il secondo di natura teologica, il battesimo non verrebbe ad essere decisivo per il riconoscimento dell’identità cristiana. Problemi irrisolti anche nell’ambito della CPCE (Conferenza delle Chiese Protestanti in Europa) dove nel 2004 un consenso sulla questione battesimale non venne raggiunto.
Molto utile ai fini di una comune soluzione la riflessione del teologo battista britannico Paul S. Fiddes. Identificando le caratteristiche essenziali del battesimo cristiano: la proclamazione della Parola di Dio , la confessione di fede del battezzando e l’immersione, valuta il secondo come fattore critico. Crisi però che viene a risolversi nel momento in cui si considera il battesimo nella valenza di un processo di iniziazione. Infatti anche le chiese pedobattiste richiedono una confessione di fede che si viene con la proposta di Fiddes a considerare parte integrante del battesimo e differita . Un riconoscimento quindi potrebbe avvenire da parte battista , non tanto del battesimo dei fanciulli quanto del processo di iniziazione nel suo insieme. Un impegno al quale dovrebbe corrispondere da parte delle Chiese di tradizione pedobattista la volontà e la capacità di mantenere vivo al proprio interno il dibattito critico sul battesimo dei fanciulli . Le ragioni teologiche per farlo sono eccellenti.
Porsi in discussione risalta come elemento fondamentale nell’ecumenismo: “E’ una lezione ecumenica consolidata: l’autocritica genera l’altrui disponibilità a procedere analogamente; lo stesso vale, purtroppo, per l‘irrigidimento” (8).

Alessandro Serena
1) Ricca P., “La fede cristiana evangelica”, Claudiana Torino, 2012, p. 199.
2) Ferrario F., Jourdan W., “Introduzione all’ecumenismo”, Claudiana Torino, 2009, p. 80.
3) Ricca P., op.cit. p.198.
4) Ivi
5) Ferrario F., Jourdan W., op.cit., p.87.
6) Ferrario F., “Tra crisi e speranza”, Claudiana Torino, 2008, p. 118.
7) Ibidem, p. 130.
8) Ibidem, p. 142

Visione complessiva
Le attese per il futuro di Israele non sono utopiche: si tratta di concreti aspetti della vita e del vivere comune, realizzati in un passato ideale, che si auspica possano nuovamente essere ripristinati. Al primo posto vi sono la pace e la giustizia, in particolare la seconda alterata da abusi di potere e iniquità economico-sociali. Necessaria quindi una società strutturata in maniera adeguata: una monarchia con un re giusto può garantire la pace, a condizione che il sovrano si attenga alla Torah, in grado di garantire pace interna fondata sulla giustizia. L’attesa per il futuro di Israele non si nutre di sogni di grandezza: sarà con il residuo di Israele che Dio esaudirà le speranze promesse. Quanto atteso viene rappresentato con modalità che oltrepassano la realtà presente; l’apocalittica che si rivolge al futuro come termine di un’epoca cosmica non è rappresentativa delle attese della Bibbia ebraica, essa si sviluppa essenzialmente in un’epoca successiva alla conclusione della Bibbia ebraica. L’attesa di Israele riguarda quindi la trasformazione della realtà attuale. Non si parla di mondo “aldilà”, di eternità: i termini me-olam e ad-olam, sovente tradotti come eternità (un concetto greco non attribuibile al pensiero ebraico) in realtà si riferiscono a un remoto passato e un lontano futuro, traducibili con “da sempre” e “per sempre”. Il popolo di Israele deve contribuire alla sua realizzazione e sarà un periodo, un “allora”  in cui si verificherà quanto sperato e promesso, nella salda fiducia che neppure in futuro Dio rescinderà il patto che Egli ha stretto con Israele.

La collaborazione all’opera divina
Come già intuibile dalla promessa contenuta nel quinto comandamento nel libro dell’Esodo, in cui all’onore da tributare ai genitori viene collegata la promessa di “giorni prolungati” (Es.20,12), -modello comportamento/conseguenze su cui insisterà il Deuteronomio- la collaborazione del popolo è necessaria per un qualcosa che deve ancora avvenire. Sappiamo cha la pace è possibile, come al termine della conquista di Canaan, come rilevato alla fine del libro di Giosuè o in epoca salomonica in cui “ognuno potrà sedere all’ombra della sue vite o del suo fico” (1 Re 4,25): periodi ideali legati comunque al fatto che Israele debba camminare nel rispetto della Torah di Mosè.

La monarchia
Attese e speranze vengono tradite dal comportamento della monarchia. I profeti si levano costantemente contro le sue inadempienze. Negli annunci della nascita di un nuovo re si leggono le critiche al sovrano attuale. In Isaia 9,5: “un bambino è nato per noi … e il suo nome sarà consigliere mirabile, Dio potente, padre per sempre, principe della pace” , si annuncia la nascita di un futuro sovrano la cui signoria sarà caratterizzata da diritto e giustizia. In Michea 5,1-4 critiche e annuncio sono ancora più radicali: “E tu Betlemme di Efrata … da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele …”. Non è comunque possibile parlare di un’attesa unitaria di un successore, di un precisa figura condivisa da tutti ; nel secondo Isaia il termine “re” è usato solo per Dio, Davide è nominato una sola volta: abbiamo una rottura con la tradizione davidica. Dopo l’esilio non si rileverà mai l’attesa di un nuovo re.

Giustizia e pace
Isaia, Geremia, Amos, Michea denunciano l’ingiustizia, la negazione del diritto ai poveri ed agli indifesi, responsabilità ascrivibile non solo al sovrano ma agli israeliti stessi; comportamenti che contraddicono le prescrizioni della Torah; ecco che da parte profetica emerge l’attesa di un re escatologico che agirà innanzitutto a favore degli svantaggiati. Nel secondo Isaia al capitolo 42 si descrive il servo di Dio che porterà il diritto: elemento essenziale per i cambiamenti escatologici attesi. Ezechiele annuncia agli esuli che Dio darà loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo, in modo che osservino i precetti di Dio: la fondazione di ogni azione giusta può avvenire solo sulla Torah. Sempre Ezechiele promette che Dio, per mezzo del re escatologico da lui sostenuto, stringerà un patto di pace (berit salom) con Israele e li farà abitare al sicuro. (Ez 34,23-25). Giustizia e pace sono le due grandi speranze, la pace può darla soltanto Dio, Israele può e deve dare il suo contributo. Alla conversione (sub) di Israele corrisponde la conversione di Dio, “Se ti convertirai al Signore … avrò pietà di te …” (Deut. 30,2), vi è diretta correlazione reciproca: la sovranità di Dio non solleva mai governanti e popolo dalle loro responsabilità.

Il patto
Geremia scrive di un “nuovo patto” (Ger. 31,31), un rinnovamento che significa un nuovo inizio, perché il fondamento rimane la Torah, nuovo sarà il modo di considerarla, in continuità col patto del Sinai. Siamo all’interno di un evento comunque escatologico (“dopo quei giorni” v.33). Un nuovo cuore è annunciato anche in Ezechiele, in maniera molto plastica come è caratteristica di questo profeta: Dio “toglierà il cuore di pietra” e darà loro un “cuore di carne”.
In contrasto con la visione profetica si ha quella del Deuteronomio che riporta come presente tale promessa: “Questa parola è molto vicina a te; è nella bocca e nel tuo cuore, affinché tu la metta in pratica” (Deut. 30,14).

Il giorno di Yhwh
“Jom Yhwh”, una serie di testi ne parlano: Amos dichiara che è “tenebre, non luce” (Am.5,18-20); per Isaia “verrà su tutto ciò che è orgoglioso ed altero” (Is. 2,12-21); per Sofonia, in cui spiccano gli eventi catastrofici ed impressionanti, esso si richiama alla ricerca della giustizia e dell’umiltà, in grado di fornire un’esile speranza di protezione per il resto d’Israele che Dio lascerà sopravvivere (Sof. 3,13) nel giorno dell’ira del Signore (Sof. 2,3). Si tratta quindi di un tempo finale che sarà tempo di salvezza per il residuo di Israele.

Il residuo d’Israele
Il concetto di fondo è che di una grande collettività qualcuno rimane, non è scontato: nel secondo libro dei Re ci si riferisce alla fine della casa di Acab come ad una cancellazione, non ne scampa alcuno, quindi non v’è futuro. Il residuo è un punto positivo: è soltanto un resto ma vi si concentra la promessa per il futuro. Dio dice ad Elia che “Io lascerò in Israele un residuo di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non si è piegato davanti a Baal e la cui bocca non l’ha baciato” (1 Re 19,18); Elia non viene lasciato solo, è uno scampato ma Dio, che continua ad agire, istituisce il residuo. In 2 Re 19,30 Isaia dice ad Ezechia che i superstiti della casa di Giuda getteranno nuove radici: “Da Gerusalemme uscirà un residuo e usciranno gli scampati dal monte Sion”. Il discorso del residuo è uno degli elementi che animano il libro di Isaia: nel primo Isaia, il sovrano escatologico del capitolo 11 riscatterà “il resto del suo popolo” (v. 11); nel secondo Isaia il residuo è costituito dai reduci (51,11: “ritorneranno i riscattati dal Signore”); vengono sviluppati nuovi criteri di appartenenza in una visione universale di salvezza nel terzo Isaia, in 56,6 ss. : “Gli stranieri anche hanno aderito al Signore per servirlo … li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera” . Sarà Zaccaria a compiere un passo ulteriore, parla del residuo come di una realtà presente, sono gli abitanti di Gerusalemme di quel tempo post-esilico , anche se il rovesciamento escatologico non è ancora compiuto: viene promesso ancora il rinnovamento delle loro condizioni di vita (Zac.8,11). In Gioele si rafforza l’approccio universalistico: alla fine dei giorni Dio riverserà “su ogni carne” il suo Spirito (Gioele 3,1) e saranno salvati “tutti quelli che invocano il nome del Signore (v. 5) . Il Libro di Esdra offrirà l’immagine opposta; si parla del residuo d’Israele, il concetto di “Golah” che inizialmente indicava il corso dell’esilio e il gruppo dei deportati, viene qui strettamente legato alla rappresentazione del residuo. Sono quindi i reduci del Golah a costituire la comunità cultuale post-esilica vera e propria, ai quali si possono aggiungere gli ebrei rimasti nel paese e disposti a conformarsi alle prescrizioni legali .
Il resto assume quindi diverse forme nei testi, rimanendo fermo il punto che è per questo residuo che rimangono salde le promesse e che di conseguenza ha un futuro.

Alessandro Serena

Protestantesimo, ecumenismo e pluralismo.

Per risalire allo spirito ecumenico che contraddistingue il protestantesimo contemporaneo, non è sufficiente analizzare la storia dell’ecumenismo a partire dagli inizi del XX secolo, periodo che ha visto la nascita e l’istituzionalizzazione di percorsi ed organizzazioni internazionali. Percorrendo la storia della Riforma e procedendo verso il passato, occorre superare le reciproche scomuniche tra chiese cristiane ed il clima di contrapposizione che – sebbene costitutivo all’interno della disputa teologica e della definizione identitaria della Riforma e del cattolicesimo post-tridentino- hanno originato spargimenti di sangue ed orrori, compiendo un reale tradimento del messaggio di Cristo. Arriveremo così all’origine del termine “protestantesimo” che oggi identifica le Chiese appartenenti al protestantesimo storico, luterane e riformate. Tale termine espresse la reazione -nel corso della II dieta di Spira del 1529- da parte di cinque principi elettori e di 14 città che avevano aderito alla Riforma, al ritiro da parte imperiale della concessione fatta nella dieta tenutasi tre anni prima. Essa prevedeva infatti che ciascuna autorità politica decidesse autonomamente se permettere o meno la predicazione evangelica. Una “protestatio”, corale quindi, che faceva seguito alla dichiarazione individuale di Lutero che a Worms nel 1521 rifiutò di ritrattare le sue affermazioni ed opere, in nome del primato e del vincolo della Scrittura. Una “protestatio” che identifica un atteggiamento di resistenza ed opposizione a leggi e norme che pretendono coartare o violare la coscienza dei singoli. Il protestantesimo racchiude quindi in maniera connaturata ad esso il concetto di libertà e di pluralismo. Non possiamo non vedere come anche quest’ultimo concetto sia intrinsecamente legato all’origine stessa del Cristianesimo. Già nella nascita e sviluppo della Chiesa primitiva si possono osservare le diverse tradizioni che la animavano. Limitandoci alla Siria e Palestina del I e II secolo si identificano cinque diverse tradizioni cristiane (1): quella dei detti (Fonte Q), quella Antiochiena, kerigmatica, dove probabilmente Paolo apprese molto dei contenuti della sua teologia, quella Giovannica, connotata da una fratellanza priva di gerarchie, quella giudeo-cristiana e quella gnostica. Rileviamo anche le differenze tra una Chiesa gerarchica, episcopale, quella che vinse potremmo dire, quella degli Atti e quella che originò il quarto Vangelo, per non parlare delle differenze tra il cristianesimo paolino e quello gerosolomitano. Non possiamo dimenticare inoltre che abbiamo due testamenti, quattro Vangeli e che sebbene da Marcione a Taziano si sia spesso cercato di conciliare le differenze, tali tentativi non hanno mai raggiunto lo scopo di uniformare un messaggio che si presenta articolato e ampio. Diversità che nasce anche sulla base di un ebraismo che è plurale e che quindi , nelle sue diverse manifestazioni, ha influito sui primi circoli cristiani. Potremmo pensare –ad esempio- al fariseismo della scuola di Hillel , piuttosto che non all’ebraismo ellenistico. In poche parole il pluralismo è caratteristica sia del cristianesimo che del protestantesimo .

Diversità ed unità nel protestantesimo.
La diversità come dato di fatto quindi e nel contempo la chiamata all’unità . Come conciliarle? Ecco la rilevanza della Scrittura che in Paolo (Ef. 5,4 ss.) ci ammonisce:  “Noi crediamo la Chiesa una, perché uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno l’Iddio, padre di tutti”. Di conseguenza potremmo dire che l’ecumenismo è necessario perché “Dio lo vuole ” (2). In seno al mondo protestante ed evangelico in generale, le due tensioni, diversità ed unità si sono costantemente presentate, stante la capacità ed il desiderio di confrontarsi con la contemporaneità. “Il protestantesimo ha in generale cercato di immergersi nella corrente, di rischiare sé stesso nella storia. Era stato così anche nei secoli precedenti: l’ecclesiologia protestante favorisce un confronto serrato tra la parola biblica e le sfide del tempo…” (3). D’altro canto , nel contempo “Tutta la dottrina della Riforma, a prescindere dalle singole confessioni di fede, potrebbe essere riassunta nelle seguenti espressioni latine: , Sola Fide, Sola Gratia, Solus Christus, Sola Scriptura.” (4). Altre caratteristiche portanti sono: l’adesione ai credo ed alle formule come espressi nell’Apostolico (contenete espressioni risalenti al II secolo) e nei concili del IV e V secolo (Niceno-Costantinopolitano del 381 e di Calcedonia nel 451); la collegialità (rivoluzionaria nel XVI secolo l’abolizione o il ripensamento della figura del vescovo; una costante attenzione alla necessità del cambiamento (Ecclesia semper reformanda); le confessioni di fede: Augustana , Elvetica, i 39 articoli anglicani… .
Unità espressa in maniera mirabilmente concisa ed efficace nelle tre confessioni appena citate: La chiesa di Cristo è dove il Vangelo è rettamente annunciato e i sacramenti correttamente amministrati. Diversità nelle forme e spiritualità delle famiglie confessionali e delle denominazioni, come anche nei modelli ecclesiali: episcopale, presbiteriano, congregazionalista. Nel protestantesimo possiamo rilevare cinque famiglie confessionali: luterana, riformata, anglicana, battista, metodista. Movimenti di risveglio, rispondenti sul piano teologico all’azione dello Spirito, su quello sociale alla necessità di rivitalizzare il cristianesimo spesso ingessato in Chiese ormai dominanti. Spiccano tra essi il battismo, il pietismo tedesco, il metodismo. Assistiamo inoltre a correnti trasversali alle varie denominazioni: ecumenico, carismatico, evangelicale.

Documento del sinodo valdese sull’ecumenismo (1998)
Il movimento ecumenico , per propria natura nasce quindi in seno al protestantesimo. Urgente agli inizi del XX secolo la necessità di confrontarsi a fronte dei nuovi quesiti imposti dall’attività missionaria. Non a caso fu nel 1910 , in occasione della conferenza missionaria mondiale di Edimburgo, che si iniziò un cammino che portò poi alla creazione di quelle organizzazioni accomunate dalla necessità di arrivare all’unità visibile della chiesa: nel 1948 il CEC (consiglio ecumenico delle chiese), nel 1959 la KEK, (conferenza europea delle chiese), nel 1973 la CPCE (commissione delle chiese protestanti in Europa-concordia di Leuenberg) per arrivare infine ad un documento condiviso anche con la chiesa cattolico-romana (Charta Oecumenica, 2001) .
In questo contesto la Chiesa evangelica valdese, tramite il suo sinodo (delle Chiese valdesi e metodiste), produsse nel 1998 un documento in grado di affrontare in maniera organica il tema ecumenico, dalle motivazioni, allo stato dell’arte delle relazioni con le altre chiese, fino agli obiettivi e linee guida.
Chiarendo immediatamente nel preambolo come l’ecumenismo sia rispondente alla Parola che richiama ad un solo corpo, un solo Spirito un solo Signore (Ef. 4,4-6), il documento evidenzia come la cristianità si sia divisa più volte e come la varietà e la diversità facciano parte della natura stessa della Chiesa una, in quanto esse sono caratteristiche umane: Il fatto stesso che nella Bibbia si abbiano diverse concezioni e teologie illustra tale concetto, rilevando come siano illustrati i molteplici aspetti di una unica realtà e verità : la rilevazione di Dio in Gesù. L’uniformità infatti contraddice l’azione dello Spirito che si manifesta nella varietà dei doni. La Chiesa come corpo di Cristo non è divisa, perché Cristo non è diviso (1 Cor 1,13), è la Chiesa come realtà storica e umana ad essere divisa. Interessante in questa sezione come alcuni termini identifichino l’atteggiamento adeguato al percorso ecumenico: Chiese che sinceramente desiderano manifestare unità, che hanno iniziato un cammino di pentimento e rinnovamento, imparando ad accogliersi gli uni gli altri, non ignorando e banalizzando le divisioni, consapevoli che nessuna chiesa esaurisce la “pienezza di Dio” (Ef, 3,19). Senza perdere di vista che la principale ragione dell’ecumenismo è che “il mondo creda” (Gv, 17,21). Nei rapporti con le altre chiese evangeliche sono evidenziati i passi compiuti in Italia : la nascita del consiglio federale delle chiese evangeliche nel 1946, la rubrica televisiva “protestantesimo”, la società biblica in Italia (interconfessionale dal 1983), il programma “essere chiesa insieme” promosso dalla federazione delle chiese evangeliche in Italia, il patto di integrazione nel 1979 delle Chiese valdesi e metodiste, in piena comunione con l’unione cristiana evangelica battista d’Italia. Si riportano anche gli elementi di diversità: l’interpretazione del testo biblico (storico-critico nella Chiesa valdese), le scelte etiche (ravvisando nella Chiesa valdese la stretta unione tra responsabilità verso gli esseri umani e comandamento dell’amore, nello spazio della libertà di Cristo ). Diversità che non impediscono un rapporto di fraternità non essendo intaccato il centro della confessione di fede. Nei rapporti con le Chiese ortodosse si sottolinea come il movimento ecumenico rappresenti un importante terreno di incontro, con particolare riferimento al Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) ed alla Conferenza delle Chiese Europee (KEK). L’ortodossia , che può essere considerata la forma più antica di cristianesimo, avendo ben salde le origini nella Chiesa sub-apostolica e nei padri della Chiesa, si caratterizza per la fedeltà alla Chiesa del primo millennio . Vi sono importanti affinità e diversità tra Chiese riformate ed ortodosse. Si pensi alla valorizzazione del laicato ed alla conciliarità come elementi di unione e alle diverse nozioni di apostolicità con le relative ricadute sulle concezioni di ministero e sacramento. Si sottolinea l’urgenza di un maggiore incontro a livello nazionale tra Chiese riformate e ortodosse. Un ampio spazio –com’è naturale che sia per il paese che racchiude al suo interno lo Stato del Vaticano- viene dedicato ai rapporti con la Chiesa cattolico-romana. Verità cristiane fondamentali sono pienamente condivise: la concezione trinitaria di Dio, la fede in Cristo vero Dio e vero uomo; altre sono comuni ma interpretate diversamente: la Cena del Signore, il ministero, considerati devianti rispetto alla fede cristiana. Esplorando ciò che unisce protestanti e cattolici romani non possiamo prescindere dal nome di Gesù come unico salvatore, dalla fede in Dio, rivelatosi in Israele ed in Gesù di Nazareth, confessato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Nella Scrittura, sia Antico che Nuovo Testamento, (nonostante alcune differenze nel canone dell’AT) entrambe le confessioni riconoscono la testimonianza che Dio rende a sé stesso per mezzo di profeti, apostoli e testimoni, soprattutto attraverso l’insegnamento, la vita , la morte e resurrezione di Gesù. Condivisi anche i criteri essenziali della fede -come espressi dal credo niceno-costantinopolitano e dalla formula di Calcedonia- ed il battesimo d’acqua (anche se le rispettive teologie differiscono in alcuni punti). La Cena del Signore e l’Eucarestia pur celebrando uno stesso sacramento istituito da Cristo e riconosciuto da entrambe le confessioni, sono interpretate diversamente sul piano della presenza di Cristo (transustanziazione vs. presenza spirituale) e del valore sacrificale riconosciutole in ambito cattolico. Principali punti di divisione ruotano attorno a due poli: ecclesiologico ed etico. Il primato della Scrittura per la Riforma ed il valore paritario della tradizione e del magistero per il cattolicesimo. La giustificazione per grazia mediante la fede non è più elemento di forte divergenza come in passato (con riferimento alla cooperazione alla grazia del concilio di Trento) ma viene inficiata dalla teologia dei meriti e dell’intercessione dei Santi e delle indulgenze. La comunione gerarchica cattolica si oppone alla comunità di fratelli riformata come –rispettivamente- una chiesa sacramentale è diversa da una kerygmatica. Due sacerdozi (l’uno gerarchico, l’altro universale) , differenti nella loro essenza contrastano con Il sacerdozio universale dei credenti professato in ambito riformato. Spiccano inoltre come elementi di difformità il ruolo del papato, la mariologia e l’etica dove le posizioni tra magistero cattolico e pensiero protestante sono molto diverse , a partire dalla “legge naturale” cui si richiama la morale cattolica. La rivendicazione da parte cattolica di una successione apostolica storica e al sua ricaduta sacramentale ed ecclesiologica limitano grandemente il riconoscimento della Cena del Signore come sacramento e delle chiese nate dalla Riforma come chiese vere e proprie. Significativo che proprio la Santa Cena, incondivisa, la tavola che dovrebbe accogliere per eccellenza, dove anche Giuda trovò posto , sia appunto motivo di divisione.  Le proposte ecumeniche vertono sui modelli di “comunione conciliare” e di “diversità riconciliata”. Si intende nel primo caso una comunione di chiese locali dove ognuna, in comunione con le altre, possiede la piena cattolicità e riconosce alle altre la piena appartenenza alla stessa chiesa di Cristo, nel secondo le diversità non vengono annullate ma viste alla luce dello Spirito che offre “una varietà di doni “, consapevoli che la Chiesa di Cristo è una e pluriforme. Nei rapporti con l’ebraismo si riconoscono le colpe della teologia del disprezzo e della sostituzione, evidenziando come , in base alla testimonianza biblica, il rapporto tra Chiesa e Israele si ponga su un piano diverso da quello con le altre religioni. Nei rapporti con l’Islam si rilevano gli elementi comuni delle religioni abramitiche ma anche come la questione della libertà religiosa emerga in occidente e nei paesi islamici. Nei rapporti con le altre religioni viene riportato come il CEC parli di fedi viventi come di esperienze vissute da credenti. Si riconoscono elementi di verità e santità presenti e operanti nelle altre religioni ma si afferma che Gesù è il Rivelatore di Dio, la Via, la Verità e la Vita per tutta l’umanità, il solo nome “dato agli esseri umani per il quale possiamo essere salvati” (Atti 4,12). Se quindi modi di impostazione del dialogo ecumenico quali quello del Cristo come “una delle vie” che conducono a Dio o quella del “Cristo più grande” non vengono condivise dal sinodo, si riconosce tuttavia che esistono aspetti della pienezza di Cristo sconosciuti ai cristiani e di cui dobbiamo essere consapevoli perché Gesù è più grande della nostra intelligenza e di quella della fede, convinti che l’Evangelo è e resta buona notizia per ogni creatura, benedizione da trasmettere, dono da condividere.

Alessandro Serena

 

 

  • Redaliè Y., “Unità e diversità nel Nuovo Testamento”, in “Le origini del Cristianesimo”, a cura di Penna R., Carocci editore, Roma 2004, par. 8.5.
  • Ferrario F., tratto da “Giubileo ed ecumenismo. Occasione o inciampo?”, a cura di Giampiccoli F., Claudiana, Torino 1999, p.7.
  • Ferrario F., Gajewski P., “Il protestantesimo contemporaneo”, Carocci editore, Roma 2007, pos.38 versione e-book Kindle.
  • Ivi, pos.1302 versione e-book Kindle.

Prima di affrontare il testo di Calvino è indubbiamente necessario operare un breve inquadramento sia del momento storico in cui è nato il libro che del pensiero del riformatore ginevrino.

Contesto
Il XVI secolo è configurato non solo dai grandi temi della Riforma e della controriforma ma anche da un fermento umano e politico che attraversa tutta la società. Un mondo dinamico da un lato -le nuovi classi sociali si stanno affermando, la borghesia irrompe nello status quo che si protrae da secoli- ma ancora sotto l’influenza del medioevo, focalizzato sulla centralità di Dio , data per scontata. Secolo ancora profondamente religioso -impossibile essere ateo nel senso moderno della parola- il pensiero difforme significa pensiero eterodosso, spesso eretico , di chi in sostanza si ritiene creda in maniera deviata. La Riforma nelle sue forme urbane, in particolare: Strasburgo, Ginevra, Basilea, (per parlare delle città in cui Calvino visse e operò), rappresenta una realtà articolata, composta da relazioni culturali, sociali, politiche e giuridiche spesso comuni al mondo delle città libere del centro-nord Europa. Un clima, quello ginevrino, arroventato da passioni e lotte, scontri tra fazioni, attacchi, aggressioni, perfettamente allineato con quello di un secolo guerriero da ogni punto di vista: militare, ideologico, politico. Con la Riforma si realizza una crisi in Europa: i valori della tradizione sono in discussione, i nuovi valori non sono ancora strutturati. Confusione, equivoci, smarrimento cui già fanno sovente seguito repressioni, scomuniche e roghi. Servono idee, ordine, struttura. Ecco che compare la figura di Calvino.

Fermenti e pensiero
Un mondo vivace e ricco di contrasti, aspetti che non possiamo non rilevare nel pensiero calviniano: calato profondamente nella situazione storica e lontano dal pensiero precostituito. Cresciuto nel celebre collegio ecclesiastico di Montaigu, frequentato anche da Erasmo e Ignazio di Loyola, studierà poi giurisprudenza, abbraccerà infine la Riforma; si attiene rigorosamente al patrimonio tradizionale delle fede cristiana, è al contempo umanista erasmiano. Modernissimo nell’uso degli strumenti filologici umanisti ne è anche avversario, teso alla realizzazione di una comunità di credenti impegnati. Tra un umanesimo che evidenzia l’importanza dell’uomo -riscoperto ma strettamente legato a Dio- ed un altro che centralizza l’uomo -emarginando Dio che diviene un satellite dell’uomo- Calvino opta per il primo: mistero di Dio e mistero dell’uomo sono intimamente intrecciati. Lo vedremo nella sua cristologia che troveremo fortemente rappresentata nell’Istituzione. La sua teologia ha un carattere sia occasionale che sistematico: nasce occasionale e diventa sistematica.

img_0745

L’Istituzione della religione cristiana: origine, idee e struttura.

Origine
“L’occasionalità” la cogliamo nella stessa nascita del testo in questione. Sorge quando cominciano le persecuzioni violente contro gli evangelici di Francia. Senza dubbio già nelle corde di Calvino, il catalizzatore è stata la persecuzione, che rende necessario dimostrare che la fede dei martiri evangelici è una fede cristiana biblica, quella della fede antica. L’opera, un “libriccino” di poche pagine è divenuta dopo un lavoro di 23 anni una vera cattedrale teologica. La prima edizione, composta da sei capitoli, è del 1536, l’ultima, di 80 capitoli, è del 1559. La precede una lunga dedica introduttiva a Francesco I re di Francia. Calvino vi denuncia apertamente e con coraggiosa disinvoltura l’iniquità dei processi e delle condanne. Il primo argomento forte è che il sovrano è ministro di Dio e come tale non può tollerare che nel suo regno accadano tali ingiustizie: non una questione di fede ma di giustizia; occorre l’intervento del re perché cessino le persecuzioni o perlomeno affinché i processi siano equi e condotti in maniera tale che gli accusati si possano difendere. Nel 500 c’è spesso -anche in Lutero- questo appello al re e all’autorità politica perché ricordino i loro i doveri come ministri di Dio. Secondo argomento significativo è che la Riforma è perseguitata ma la sua dottrina è vincente, non in quanto appartenga a chi la rappresenta o ai suoi fedeli ma perché è del Dio vivente e del suo Cristo.
Comprendiamo qui la ragione del conflitto così aspro tra Roma e la Riforma , entrambe erano certe di rappresentare e farsi portavoce della verità cristiana. La Riforma comunque ha sollevato la questione delle verità cristiana: -cosa è vero- richiamandosi alla Scrittura. Calvino, in un terzo e pregnante argomento scrive al re che l’accusa rivolta agli Evangelici di essere mestatori,ribelli, sovversivi, disturbatori dell’ordine pubblico , non fa altro che riflettere come questa sia l’opera della Parola di Dio. Quando la parola entra nel mondo, si verificano tumulti, accade una reazione, la gente non è più in pace in una tranquillità superficiale fatta di tradizione e abitudini. Non siamo noi -la difesa di Calvino- a suscitare agitazione , a mettere in discussione le verità tradizionali mai approfondite , è la parola di Dio. Calvino cita Elia che disturbava i profeti, Gesù era un perturbatore dell’ordine pubblico, gli apostoli anche. Questo sommovimento è un frutto dell’opera del Signore.

Idee
L’opera non ha lo scopo di illustrare un panorama della dottrina cristiana, bensì permettere la comprensione del testo sacro. Il testo infatti, tutto sommato, è un commento alla Scrittura, si sente a suo agio sia nella Bibbia che nella riflessione ed elaborazione filosofica. Calvino si definisce filosofo cristiano, nel senso erasmiano, l’insegnamento di Cristo come filosofia cristiana. Oggi pensiamo ad una alternativa tra il pensiero biblico e quello filosofico, allora erano strettamente connessi. Nell’Istituzione troviamo questo collegamento. Il culmine della riflessione stoica, raggiunta da Seneca e vicina alla sensibilità di Calvino è presente: coerenza e scelte responsabili. Tutto comunque sottomesso alla Parola: la teologia non è verità ma un metodo di indagine della verità, non fonda la fede e vive nella dialettica: nella tensione tra Parola e fede. Quando commenta i testi biblici l’ermeneutica di Calvino è il riferimento alla chiesa, l’applicazione del testo alla situazione della chiesa, della società e dell’umanità. Questa è la sua preoccupazione fondamentale, si serve di tutta la metodologia che le scienze bibliche, storiche e filosofiche forniscono per effettuare la sua esegesi che è moderna, non è più quella della quadriga medioevale. Il suo senso fondamentale è il vissuto umano e cristiano . Sintesi quindi non solo delle idee, l’Istituzione rappresenta la coscienza di sé di una Riforma giunta a maturità.
Coscienza di sé ma anche conoscenza di Dio e conoscenza dell’uomo. Secondo Calvino conoscendo Dio ciascuno conosce anche sé stesso. Di fronte a Dio siamo nudi e obbrobriosi: la coscienza della nostra pochezza ci deve spronare a conoscere Dio. La consapevolezza ci porta a riconoscere che solo in Dio c’è saggezza, purezza, giustizia e solo dopo avere visto che dobbiamo essere insoddisfatti di noi stessi, possiamo ben considerare i beni di Dio. Possiamo quindi riconoscere la nostra dignità attraverso tali doni, che Dio ci dà come Creatore: vita, intelligenza, parola, il prossimo, la natura. Doni che ci fanno risalire alla sorgente che è Dio: la creatura in quanto tale riflette su se stessa, viene ricondotta all’esigenza di conoscere il Creatore. Non dobbiamo pensare ad una teologia naturale, ad un Dio che si fa conoscere razionalmente indipendentemente dalla rivelazione, non esiste una pre-fede. L’uomo conosce Dio nel momento in cui incontra la Parola. L’accento è quindi molto forte sulla caducità, precarietà, contraddittorietà , peccaminosità che mostrano all’uomo come egli è: non è una visione pessimista, è realista. Non siamo solo peccato ma il peccato ci condiziona largamente . Si sottolinea la pochezza e la fragilità dell’uomo per incitarlo a rivolgersi a Dio. Rappresenta una didattica, funzionale a stimolare la ricerca di Dio e al non farsi illusioni su di sé. Realismo che connota anche il pensiero sotteso alla dottrina della predestinazione: è l’osservazione pastorale del fatto che la predicazione susciti la fede solo in alcuni, mentre in altri non ha alcun effetto; una deduzione rigorosa dell’autorità divina e dell’onnipotenza del Signore sui suoi eletti.

Giovanni Calvino

Giovanni Calvino

Struttura
Nel 1559 esce l’ultima edizione, in latino, delle Istituzioni. Sarà tradotta in francese da Calvino stesso l’anno successivo. Diviene -tradotto in tutte le lingue- il libro di pietà di tutti i riformati d’Europa. Strutturato in 4 libri suddivisi in un totale di 80 capitoli si presenta secondo la seguente articolazione:
-Libro 1
“La conoscenza di Dio quale Creatore e Sovrano reggitore del mondo”, 18 capitoli.
Tratta di Dio creatore e della provvidenza
-Libro 2
“La conoscenza di Dio come Redentore in Cristo, prima rivelata ai Padri sotto la Legge e poi a noi nell’Evangelo”, 17 capitoli.
Ruota intorno all’uomo peccatore, salvato, redento e quindi è centrato su Cristo.
-Libro 3
“Il modo attraverso il quale riceviamo la grazia di Cristo: quali benefici ce ne provengono, e quali effetti ne conseguono”, 25 capitoli.
Appropriazione della salvezza da parte dell’uomo, fede, giustificazione, santificazione e vita Cristiana.
-Libro 4
“I mezzi esteriori e ausili, di cui Dio si serve per chiamarci a Gesù Cristo suo figlio e mantenerci uniti a lui”, 20 capitoli.
La chiesa: struttura ministeriale, rapporti con lo stato e vita della comunità cristiana.

L’Istituzione della religione cristiana; Libro II: La conoscenza di Dio come Redentore in Cristo, prima rivelata ai Padri sotto la Legge e poi a noi nell’Evangelo”

Temi principali
Calvino decide di definire la sua opera non una summa ma una Institutio. Una selezione dei testi teologici di maggiore significato, un ausilio per il credente, un volume da consultare. Il cuore dell’opera intera è in Cristo. Sia quando si parla dell’uomo che quando si parla dell’uomo e della chiesa in relazione tra loro, tutto converge intorno a Gesù.
Lo vediamo in particolare nel secondo libro: caduta dell’uomo, redenzione e cristologia quindi i tre grandi temi affrontati. Inizialmente spicca la schiavitù dell’uomo, servo del peccato; è a causa di Adamo che l’umanità intera è decaduta: l’uomo non possiede ora il libero arbitrio, quanto fa basandosi su sé stesso è oggetto di condanna. La propria volontà non consente all’uomo di operare il bene. E’ Dio che interviene nel cuore degli uomini. Cristo che come Mediatore tra Dio e gli uomini, li salva per mezzo della sua morte, resurrezione ed ascensione, meritando per noi la grazia di Dio e la salvezza. Calvino non trascura inoltre di trattare il tema della legge, attraverso l’illustrazione del decalogo e del significato profondo dei comandamenti, operando inoltre un’analisi del rapporto di continuità tra i due Testamenti.
Struttura:
-I capitoli da 1 a 5 trattano della colpa e depravazione dell’uomo.
-Il capitolo 6 inaugura il tema della salvezza mediante Gesù Cristo, che sarà illustrato nei percorsi dei capitoli successivi su Antico e Nuovo Testamento.
-I capitoli 7 ed 8 ruotano intorno all’Antico Testamento ed al ruolo della Legge, con l’esposizione dei 10 comandamenti.
-Il capitolo 9 tratta del Nuovo Testamento e di come il Cristo sia stato rivelato pienamente nell’Evangelo.
-I capitoli 10 e 11 trattano le differenze e somiglianze tra Antico e Nuovo Testamento.
-I capitoli da 12 a 17 parlano di Gesù Cristo come Persona (cap. 12-14) e delle sue opere (cap. 15-17)

Approfondimenti
Peccato originale
Il paragrafo 8 del primo capitolo offre una sintetica espressione del peccato originale: ” il peccato originale consiste in una corruzione e perversità ereditarie della nostra natura, che diffuse in tutte le parti dell’anima ci rendono, in primo luogo, meritevoli dell’ira di Dio, e in seguito producono in noi le opere definite dalla Scrittura: opere della carne.” (1) Con ampi riferimenti all’apostolo Paolo, in particolare al capitolo quinto della lettera ai Romani, Calvino illustra come la perdizione dell’uomo non derivi da Dio ma dalla nostra colpa e debolezza, dovuta al nostro decadimento dalla condizione che l’umanità aveva al momento della creazione. Quella del bene può essere una nostra aspirazione, come lo può essere quella della libertà di cui siamo sprovvisti.
Libero arbitrio
Riflettendo a partire da Agostino si definisce l’arbitrio come “servo”. Intuendo perfettamente come tale definizione possa però divenire scusante per il peccato. La vera libertà è di conseguenza quella che viene dallo Spirito, liberando la volontà dai propri desideri che la limitano. Chiarisce Calvino che il termine libero arbitrio possa trarre in inganno, facendo pensare che l’uomo disponga del proprio giudizio e della propria volontà. Il libero arbitrio quindi è “in cattività” non sarà libero fino a che la Grazia non lo consentirà.
Predestinazione
Ecco che il libero arbitrio per fare il bene è quello possibile solo se aiutati dalla Grazia di Dio, “dalla grazia speciale data solamente agli eletti attraverso la rigenerazione”(2). Si è quindi destinati: da dove Calvino trae questa conclusione, oltre che dalla Scrittura? Dall’osservazione. Egli nota come alcuni uomini siano più intelligenti di altri, vede come alcuni eccellano mentre altri permangano nella mediocrità. Una diversità che gli fa cogliere come sia necessaria l’umiltà, per rendersi conto che è la pura liberalità di Dio che dona. Parimenti la sua Grazia, donata agli eletti, riesce ad avere la preminenza sulla comune natura.
Redenzione
Il primo passo è rappresentato dalla fede in Gesù Cristo, fede nell’umiltà. Sposando pienamente le teologia e la follia della croce paolina, il predicatore ginevrino mostra come tale follia sia disprezzata dagli increduli e non piaccia allo spirito umano: “dobbiamo accettare questa follia in tutta umiltà” (3). Fede in Gesù Cristo riconosciuto come Mediatore, infatti dopo la caduta di Adamo è solo tramite la conoscenza di Dio che ci perviene per mezzo del Mediatore, che è possibile la salvezza. “La vera salvezza di Dio non può sussistere senza Gesù Cristo” (4). Calvino, da esegeta, cita diversi profeti dell’Antico Testamento a riprova del fatto che la speranza dei credenti, da sempre, riposa solo in Cristo.

La Legge e i dieci comandamenti
Allora la Legge non salva? Ancora una volta è il Cristo che rivela il vero volto di Dio. Un Dio che nei comandamenti risulta come colui che retribuisce solo la perfezione, a noi impossibile, ma che mostra in Gesù la sua grazia e la sua dolcezza, nonostante il nostro peccato. Legge non inutile ma “pungolo” perché l’uomo non si impigrisca. Nella sua esposizione dei comandamenti Calvino premette l’esistenza della legge naturale. L’uomo può intuire, tramite la legge naturale, cosa sia ben accetto a Dio, la sua cecità ed il suo peccato gli impediscono tuttavia di conoscere rettamente il Suo desiderio. Ecco che il Signore ha dato la Legge scritta a tale scopo. Emerge nell’illustrazione della Legge come Dio voglia non l’esteriorità ma la purezza del cuore. Non proibisce solo gli atti ma vieta il desiderio ed il pensiero che li precede. Dio “Essendo legislatore spirituale non parla meno all’anima che al corpo” (5). Altro punto che emerge con forza e relativo al primo comandamento è il binomio servitù-libertà. La schiavitù egiziana come immagine della servitù spirituale fino a che il Signore non interviene a liberarci; libertà per il popolo di Israele come immagine dell’elezione che conduce all’eterna beatitudine.
Cristo
Dicevamo che il secondo libro si pone in particolare rilievo per la figura del Cristo che emerge in tutta la sua profondità e valore per la fede. Gesù ne è il centro. La storia ed il senso di Gesù riproposti al cuore del credente, riposizionando la fede cristiana intorno a Cristo . E’ Dio che si rivela come Padre e Salvatore degli uomini in Cristo. Gesù Cristo che racchiude due nature in una sola persona: Dio e uomo ma come? Ecco che Calvino dà altrettanta importanza all’umanità di Gesù quanta alla sua divinità. Contrasta la dottrina secondo la quale le proprietà della divinità sono trasferibili alla umanità , rilevando altrimenti il pericolo di una umanità divinizzata nella quale l’uomo non potrebbe specchiarsi. “Ciascuna delle due nature ha conservato le sue caratteristiche e tuttavia Gesù Cristo non ha due persone distinte ma una sola” (6), in quanto Dio e Cristo non si possono dividere: “…Cristo, essendo Dio e uomo, composto di due nature unite e non confuse…” (7). Unite perché -citando Paolo (1Cor 2,8)- “Il Signore della gloria è stato crocifisso”: Gesù vero Dio e vero uomo ha visto non solo la sua umanità ma anche la sua divinità crocifissa, “quanto avvenuto nella sua natura umana è riferito alla divinità…” (8) .
Difende quindi l’umanità di Cristo dalla sua divinizzazione ma difende al contempo la sua divinità : è asceso in cielo e siede alla destra di Dio, è nella posizione della divinità; tale posizione non può essere accaparrata dalla chiesa e nemmeno da un sacramento: il corpo di Cristo è glorioso alla destra del padre.
Conclusioni
Questa è stata anche l’opera della Riforma, ridare centralità a Cristo dando rilievo assoluto alla Scrittura di cui Cristo è il centro. Centralità rispetto alla defocalizzazione di una fede che spaziava dai santi a Maria, che aveva perso Cristo: l’unica realtà che noi riceviamo da Dio nella quale Dio ci dona ogni cosa. Calvino infatti, nel dare un ruolo fondamentale alla santificazione, la fonda su Cristo: la comunione con Lui non solo giustifica ma santifica la vita. Santificazione che non può non riguardare la chiesa, che non è solo invisibile, è anche un corpo sociale che ha una visibilità e la cui forma deve essere regolata dalla Sacra Scrittura.
In definitiva L’Istituzione verte su una presa di coscienza: solo in Cristo vi sono giustizia e vita, salvezza nonostante la nostra miseria. Bene rappresenta il cuore dell’opera il paragrafo 19 del XVI capitolo che -non solo per il suo contenuto ma per la fede, la passione e la poesia che ne traspaiono- mi permetto di riportare quasi interamente:

“Se cerchiamo salvezza, il nome stesso “Gesù “ci insegna a cercarla in lui. Se cerchiamo i doni dello Spirito Santo, li troveremo nella sua consacrazione. Se cerchiamo forza, è situata nella sua sovranità. Se vogliamo trovare dolcezza e benignità, la sua natività ce la presenta: in essa egli è stato reso simile a noi per imparare ad essere pietoso. Se domandiamo redenzione, la sua passione ce la dà. Nella sua condanna, troviamo la nostra assoluzione. Se desideriamo che la maledizione ci sia allontanata, lo otteniamo nella sua croce. La soddisfazione, l’abbiamo nel suo sacrificio; la purificazione, nel suo sangue; la nostra riconciliazione è avvenuta mediante la sua discesa agli inferi. La mortificazione della nostra carne si trova nel suo sepolcro; la novità di vita, nella sua risurrezione, nella quale abbiamo anche la speranza dell’immortalità. Se cerchiamo l’eredità celeste, ci è assicurata dalla sua ascensione. Se cerchiamo aiuto e conforto e abbondanza di ogni bene, l’abbiamo nel suo regno. Se vogliamo presentarci al giudizio con tranquillità, possiamo farlo poiché è il nostro giudice.
In lui insomma è il tesoro di tutti i beni e da lui dobbiamo attingere per essere saziati, non altrove.” (9) .

 

Alessandro Serena

 

 

1. Istituzione della religione cristiana 1, Giovanni Calvino; a cura di Giorgio Tourn. Ed.2009, UTET Torino. Pag 363.
2. Ibidem, pag. 375.
3. Ibidem, pag. 458.
4. Ibidem, pag. 465.
5. Ibidem, pag. 491.
6. Ibidem, pag. 609.
7. Ibidem, pag. 613.
8. Ibidem, pag. 608.
9. Ibidem, pag. 657.

Il pensiero di Buber in “Due tipi di fede”: tratti e criticità.

Il libro di Martin Buber, pubblicato per la prima volta a Zurigo nel 1960 e tradotto in italiano solo nel 1995,  occorre  considerarlo alla luce del pensiero dialogico di Buber.  Se è vero che nella sua opera più significativa “Io e Tu” (1923) esprime il principio dialogico come capacità di stare in relazione con la natura, con gli uomini, ed in particolare con Dio –come si coglie nella relazione tra il popolo di Israele e il Signore espresso nell’alleanza- è vero che in “Due tipi di fede” emerge con forza il dialogo uomo-Dio. Continua a leggere